Corriere della Sera, 15 giugno 2016
Vegas, le nomine pubbliche e quelle regole che sono sempre più necessarie
Giuseppe Vegas è la dimostrazione che le nomine pubbliche continuano a essere una prerogativa dei partiti, esattamente come ai tempi del famoso manuale Cencelli.
Tutto lascia pensare che per Giuseppe Vegas sia il momento più critico da quando è alla Consob. Qualunque sia il suo destino, la bufera politica abbattutasi su di lui dopo le rivelazioni di «Report» solleva però una questione di carattere generale ben più rilevante del merito della vicenda. Riguarda il modo in cui questo Paese seleziona la propria classe dirigente, soprattutto in ruoli di estrema delicatezza come le autorità indipendenti, gli enti e le società pubbliche, la Rai. E di cui questo è un caso davvero emblematico. Vegas viene nominato alla fine del 2010 presidente della Consob, l’organismo incaricato di vigilare sulla borsa, dal governo di cui fa parte: è infatti viceministro dell’Economia, oltre che deputato di Forza Italia. Ma questo non gli impedisce il 14 dicembre 2010, quando già è designato al vertice di un’autorità «indipendente», di votare la fiducia al proprio esecutivo (che lascerà il giorno dopo) guidato da Silvio Berlusconi, imprenditore con importanti interessi nel mercato azionario, contribuendo con il suo voto a salvarlo. La nomina gli viene poi conferita senza tener conto della legge sul conflitto d’interessi approvata nel 2004 dalla stessa maggioranza che vieta di assumere incarichi in società o enti pubblici e privati connessi al proprio ruolo di governo per almeno un anno. Insomma, tutto il contrario di ciò che si sarebbe dovuto fare per scegliere il capo di un’autorità davvero indipendente. Chi oggi protesta contro le richieste di dimissioni, sostenendo che si vuole minare l’indipendenza della Consob, dovrebbe dunque ricordare com’è andata. Il fatto è che le nomine pubbliche continuano a essere una prerogativa dei partiti, esattamente come ai tempi del famoso manuale Cencelli. Né pare, per quanto almeno ne sappiamo, che l’auspicata riforma della pubblica amministrazione risolva questo problema di selezione della classe dirigente. Le resistenze politiche sono insormontabili. Regolare in modo serio le nomine farebbe di colpo svanire un serbatoio di posti di sottogoverno per ricollocare amici e colleghi trombati, insieme alla possibilità di occupare gangli vitali della nostra società con soggetti fedeli, anche se privi di competenze e capacità. Dopo le ultime elezioni politiche circa venti ex parlamentari sono stati ricollocati in enti, fondazioni, o società pubbliche. Abbiamo visto catapultare ex sindaci o ex governatori regionali in importanti authority della cui esistenza sapevano appena. Ed ex politici passare indifferentemente da un’autorità «indipendente» come l’Agcom alla Rai, per spiovere successivamente in un’altra autorità «indipendente». Neppure affidare il compito di nomina ai presidenti delle Camere, come per l’Antitrust, ha sempre garantito scelte non condizionate dai partiti o da interessi e amicizie personali. Per far cessare questo stato di cose sarebbero necessarie regole di trasparenza come quelle proposte un mese fa da alcune associazioni (e ignorate dai partiti), che prevedano la pubblicazione preventiva di curriculum, status penale e interessi economici dei candidati, nonché un periodo di pubblico dibattito. Alle authority servirebbe invece una riforma che eliminasse quelle inutili, prevedendo un meccanismo di selezione dei vertici tramite bando pubblico europeo, con l’esame di una commissione autorevole e indipendente. La sola garanzia per un presidente della Consob di non ritrovarsi un giorno in mezzo alla stessa tempesta.