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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

Qual è la molla che spinge gli stranieri a desiderare di immolarsi per l’Isis in combattimento

L’Isis sta perdendo terreno sia in Medio Oriente sia in Libia, anche se restano forti in Iraq. Tuttavia gli stranieri (davvero tutti musulmani?) che si uniscono ai jihadisti sono sempre più numerosi: anche dal nostro Paese sembra siano partiti centinaia di «foreign fighters». Lei sa darci una spiegazione su quale molla li spinge a desiderare di immolarsi in combattimento?
Sarah Viviani Sesto San Giovanni (Mi)Cara Signora,
Non so se esistano statistiche aggiornate sul numero dei «volontari» (i così detti «foreign fighters») che hanno deciso di combattere sotto la bandiera nera dell’Isis in una fase in cui l’organizzazione sta perdendo terreno in Libia e in Iraq. Ma vi sono almeno due notizie preoccupanti. La prima, naturalmente, è quella del massacro di Orlando, in Florida, in cui un americano di origine afghana ha ucciso e ferito non meno di cento persone. La seconda, per certi aspetti ancora più inquietante, è quella dei cento albanesi che avrebbero raggiunto l’Isis negli scorsi mesi. L’Albania è un membro della Nato, a circa 70 km dal punto più vicino della costa pugliese, e i suoi cittadini formano, dopo i romeni, la più importante comunità straniera in Italia. Ma è anche un Paese dove i musulmani rappresentano il 70% della popolazione e le moschee costruite in tempi recenti, con finanziamenti del Golfo e della Turchia, hanno un profilo che il Washington Post definisce «ultra conservatore».
Quali sono le motivazioni di questi volontari? Che cosa li induce a lasciare patria e famiglia per mettere la loro vita al servizio di una causa che chiede e spesso impone il sacrificio della vita? Sappiamo che uno degli strumenti a cui l’Isis più frequentemente ricorre per diffondere il proprio verbo è quello dei video che hanno invaso la rete. Appartengono in generale a due categorie: quella in cui l’organizzazione descrive l’amministrazione dei territori conquistati e quella in cui descrive i metodi spietati con cui tratta i suoi prigionieri. Alla Università di Chicago un politologo, Robert Pape, un neuroscienziato, Jean Decety, e un professore di psicologia e psichiatria, Irving B. Harris, hanno creato insieme un programma di ricerche sulla «educazione al martirio» e hanno passato in rassegna i video di propaganda delle maggiori organizzazioni terroristiche.
I metodi sono contemporaneamente quelli dell’analisi politica, sociologica, psicologica e neuroscientifica. L’obiettivo è l’identificazione delle parti del cervello che vengono maggiormente sollecitate dalle immagini utilizzate nei video di propaganda. Per meglio scoprire ciò che attrae, incuriosisce o respinge vengono interpellati anche esperti di comunicazione elettorale e il materiale raccolto viene mostrato a studenti, attivisti politici, persone provenienti dalle regioni dove le organizzazioni terroristiche sono maggiormente attive. Il Dipartimento della Difesa americano ha finanziato una ricerca quinquennale con la somma di tre milioni e quattrocentomila dollari.