la Repubblica, 15 giugno 2016
Guai a chi si accontenta e guai a chi festeggia. Adesso arriva il difficile, ma anche il bello». L’appello di Conte
L’Italia s’è desta subito dopo l’inno di Mameli e ha cominciato a strabuzzare gli occhi. Quando ha smesso, è rimasta la gratitudine di un italiano su tre – 15,5 milioni di telespettatori e uno share del 52,66% su Raiuno, 2,7 milioni e il 9,3% su Sky, 734 mila e il 2,49% su Rai4 – alla Nazionale: per l’ineccepibile 2-0 al Belgio favorito, per il gioco spettacolare e per la sensazione che gli azzurri, in quest’Europeo, non saranno affatto comparse. Ma la gratitudine popolare è andata soprattutto all’artefice della metamorfosi di un gruppo di presunte figure minuscole in squadra maiuscola: il ct demiurgo Antonio Conte. Il contismo, filosofia contigua al sacchismo e tuttavia meno divisiva, è dunque diventata il marchio dell’Italia a Euro 2016. Soltanto l’esito finale del torneo potrà inquadrarne la dimensione nella storia del calcio italiano. È però possibile fin d’ora misurarne gli effetti sferzanti.
Il più palese è il rispetto degli avversari: adesso l’Italia intravede il traguardo minimo del ritorno tra le prime 10 della classifica Fifa, sogna quello massimo della semifinale e intanto è di nuovo temuta nel presente, non solo per le glorie passate: «Che gli altri abbiano difficoltà ad affrontarci mi pare evidente» (Buffon, capitano). Il più importante è l’autostima dei giocatori: volevano dimostrare alla critica di non essere mediocri e ci sono riusciti: «Ma gli unici sorpresi sono proprio i critici: noi abbiamo sempre saputo il nostro valore» (De Rossi, vicecapitano). Il più inatteso è l’immagine: declassato a movimento di secondo piano, ostaggio della violenza, il calcio italiano si sta prendendo la sua rivincita: «In un Europeo purtroppo turbolento, i nostri tifosi sono stati i più corretti e il gioco della nostra squadra li ha resi orgogliosi. È la Nazionale a valorizzare i giocatori dei club, non viceversa. Per questo è particolarmente incomprensibile l’ostracismo di qualche società alle rose con almeno 4 calciatori cresciuti in Italia e 4 cresciuti nel vivaio” (Tavecchio, presidente della Figc). Traduzioni in tutte le lingue del neologismo in voga – “contisme”, in francese, è la più immediata – inducono al ripasso del concetto, studiato ai tempi della Juve. Consiste nella totale immersione nel lavoro, di campo e tattico. Mira alla vittoria, sempre e contro chiunque, azzerando le lacune tecniche degli interpreti grazie agli schemi, alla preparazione fisica e alla dedizione quotidiana. Si realizza attraverso superiori nozioni di tattica, impartite ai calciatori fino alla nausea. Si fonda sul dogma che gli allenatori italiani siano i più preparati tatticamente: Conte assurge a simbolo di una categoria. «Il gioco della Nazionale conferma che i nostri giocatori sanno sempre che cosa fare, quando attaccano e quando difendono. Gli altri, invece, spesso improvvisano e sono ingessati a un modulo prevedibile»: la sintesi è di Gasperini, tattico di provata fama e teorico del camaleontismo. Dopo la vittoria col Belgio l’allenatore Conte – non selezionatore, la parola gli fa venire l’orticaria – ha illustrato con i fatti il contismo. Si è rilassato «giusto il tempo di mangiare una fetta di torta di mele». Ha arringato la squadra: «Per zittire chi parla a vanvera, c’è una sola strada: rispondere con i fatti e fare qualcosa di straordinario, perché l’ordinario non basta». Ha torchiato, al ritorno mattutino a Montpellier, chi a Lione non aveva giocato. Ha analizzato al video, per poterli mostrare nelle prossime ore agli azzurri, i pochi errori col Belgio: i palloni persi, i contropiedi subiti, le quattro ammonizioni per falli tattici. Ha concesso mezza giornata di riposo agli eroi sfiancati, la maggior parte dei quali è rimasta in ritiro per smaltire la fatica. Ha chiesto ai veterani di spronare i compagni a raddoppiare l’impegno. «Guai a chi si accontenta e guai a chi festeggia. Adesso arriva il difficile, ma anche il bello». C’est le contisme.