la Repubblica, 15 giugno 2016
La Cina vuole fare le scarpe a Hollywood. Pechino è diventata il secondo mercato cinematografico mondiale, con quasi 7 miliardi di dollari al box office nazionale: quello americano è intorno ai 9
L’ultima notizia è di questi giorni. L’ultimo blockbuster americano, Warcraft, costato 160 milioni di dollari, ne ha guadagnati 24 nel primo weekend americano. Ma la sorpresa è che invece, nei primi 5 giorni di programmazione sul mercato cinese, di milioni ne ha incassati 156. Dati che non sono casuali, e forse nemmeno così insospettabili. Ormai da mesi, il mondo del cinema, americano e non solo, sembra avere al centro dei suoi pensieri la Cina. Gli articoli di Variety, Hollywood Reporter o del Financial Times si susseguono nelle settimane. In meno di vent’anni la Cina è diventata il secondo mercato cinematografico mondiale, con quasi 7 miliardi di dollari al box office nazionale: quello americano è intorno ai 9. Ogni febbraio, durante le celebrazioni del Capodanno cinese, il box office cinese supera quello americano. Il sorpasso definitivo è previsto in un paio d’anni.
Come ricorda Maria Barbieri sul catalogo del Far East Festival di Udine (osservatorio privilegiato per il mondo del cinema asiatico): «I fattori chiave del miracolo cinese sono: la progressiva diversificazione dei generi cinematografici, la capacità di inventare un nuovo tipo di blockbuster made in China, lo sfruttamento delle potenzialità dei social media, la crescente importanza delle città di secondo, terzo, quarto livello. Le cifre parlano chiaro: nonostante l’economia del Paese abbia subito un rallentamento, gli incassi dell’industria cinematografica sono cresciuti del 48% rispetto all’anno precedente, raggiungendo il record di 44 miliardi di yuan (6.7 miliardi di euro). Anche le vendite all’estero sono aumentate del 48%, totalizzando 415 milioni di euro».
I generi del cinema cinese sono i più vari: dal blockbuster avventuroso alla commedia demenziale, dal thriller al film d’animazione. Nel 2015, 80 film hanno incassato più di 100 milioni di yuan, e va aggiunto che i film cinesi rappresentano oltre il 60% degli incassi in patria. Il blockbuster del 2015 è stato Monster Hunt, fiaba parzialmente d’animazione, il cui regista Raman Hui si è formato alla Dream-Works: 380 milioni di dollari (più del doppio di tutti i film italiani dello stesso anno messi insieme, per capirci). Ma quest’anno la commedia The Mermaid di Stephen Chow ne ha già totalizzati 525.
Il mercato interno cinese è abbastanza grande da sostenere autonomamente la propria industria. In Cina si aprono 22 sale al giorno: solo 15 anni fa in tutto il paese gli schermi erano solo 2mila; ora più di 40mila. E sono in crescita anche i film prodotti (686 l’anno scorso). Nel 2015, in compenso, sono stati importati solo 58 film, grazie a forti misure protezionistiche. Del resto il potere politico sostiene l’industria del cinema per motivi economici e di immagine; ma è anche attentissimo alla pericolosità di certi contenuti, e ai rischi di penetrazione culturale straniera.
Fino a oggi le co-produzioni con la Cina prevedevano delle modifiche ad hoc per quel mercato, ma adesso il confronto comincia in fase di sceneggiatura e di ideazione: sono sempre più appetibili le storie che, oltre al pubblico americano ed europeo, possano attrarre quello cinese. La priorità dell’industria cinematografica mondiale è diventata quella di entrare in Cina collaborando alla produzione di film cinesi (su progetti, diciamo, “globalizzati”), piuttosto che cercare di esportarvi i propri film. Esempi eclatanti sono Kung Fu Panda 3 e l’imminente The Great Wall, co-produzione
con gli Usa diretta da Zhang Yimou.
L’elemento nuovo non è però l’integrazione nel mercato cinese da parte degli americani, ma il contrario: la conquista di Hollywood da parte di case di produzione, fondi di investimento e aziende di Internet cinesi. Nota Barbieri: «I protagonisti del miracolo cinese sono ormai intenzionati ad esplorare il mercato globale. E quindi non passa giorno in cui non si legga della creazione di una nuova società o della firma di mega-contratti tra quelle che ormai sono vere e proprie “major” cinesi ed i loro equivalenti americani, europei o asiatici». Il Bona Film Group di Pechino ha investito 235 milioni di dollari in film della 20th Century Fox (il primo è stato The Martian, inno all’eroe americano solitario...). Alibaba, il colosso di Internet, ha finanziato Mission Impossible – Rogue Nation, e a quanto pare sta buttando l’occhio su quote della Paramount. Il suo rivale Tencent ha appena acquistato la IM Global, creato una nuova società insieme alla Warner Bros. e rilevato quote della Imagine Entertainment, casa di produzione di Ron Howard e Brian Glazer. Wanda Group era già il più grande operatore di sale cinematografiche al mondo, avendo rilevato nel 2012 la catena americana AMC, e ora ha acquistato la Legendary Entertainment, produttrice di Warcraft. La Hunan Television ha investito nella Lions Gate ( Hunger Games, Mad Men). Nuove compagnie come STX Entertainment e Studio 8 (fondata da Jeff Robinov, ex capo della Warner) hanno trovato subito finanziatori cinesi.
Sembra allora giustificata la battuta di una vecchia star come Jackie Chan, al festival di Shangai di un paio di giorni fa, commentando gli incassi di Warcraft: «Se continua così, tra poco chi si occupa di cinema in tutto il mondo dovrà imparare il cinese anziché l’inglese».