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 2016  giugno 14 Martedì calendario

«Quanto dureranno le nostre dentature, attrezzate per fiorentine e bue grasso di Carrù, dopo una vita passata biascicando tofu e seitan? Eppure le nostre élite vogliono questo per noi». Il diario da New York di Ruggeri

Da un luogo sociologicamente scosceso come NY, per capirne i trend, seguo da tempo lo sciame sismico degli alimenti che consumano, dal campo, al mercato, alla cucina, allo stomaco umano. Negli ultimi 20 anni lo spettro si è ridotto a tre tipologie di cibo:
a) materie prime di basso standard (discount), usate dalla quasi totalità delle famiglie, dal food street, sia dei furgoni che dei locali popolari. Hai una certezza, paghi prezzi bassi, ricevi qualità bassissima con look alto. Carne gonfia di ormoni e di medicinali, pesce taroccato ma di bell’aspetto, l’accettabilità gustativa è garantita da un uso pesante di spezie;
b) se appartieni alla classe medio alta la materia prima è accettabile, spesso buona, passi dalle verdure amish a quelle californiane (gli «orti» migliori al mondo), al km 10mila del pesce del Pacifico: parallelo italico, prodotti Eataly (qualità medio-alta, prezzi alti, look altissimo);
c) infine il cibo per gli Dei (la Classe Dominante), in realtà la materia prima è quella b), la trattano però chef stellati, non cucinano più, hanno un solo strumento, pinzette per ciglia finte usate per disegnare piatti, ove tutto è guarnizione, con un nonnulla di materia prima (cruda o scottata da un mini-saldatore).
Trent’anni ebbi la fortuna di essere fra i primi clienti del «Nobu» di NY (quello mitico di Hudson Street), poi divenni un habitué di quello di Londra (ove vivevo), infine a NY aprì il Fifty Seven in Upper East Side, il brand Nobu divenne mondiale, iniziò il declino. Dieci anni fa mio figlio mi presentò un cuoco coreano, David Chang, da allora seguo la sua salita verso l’Olimpo della cucina newyorchese nei quattro locali in cui officia (ultima genialata gustata al Momofuku Nishi, uno strepitoso cacio-pepe, dove in luogo del pecorino romano c’è un passato di ceci fermentato 90 giorni, delicatissimo).
A NY la cucina francese ha perso da tempo la sua leadership, quella italiana non va oltre il livello medio alto, al top c’è ormai il Pacifico, gli chef a la page hanno occhi a mandorla. È chiaro che, in prospettiva, la cucina vegana prenderà il sopravvento, i carnivori saranno confinati in riserve indiane, gli onnivori subiranno mutazioni genetiche irreversibili, i vegetariani sopravviveranno con lo status di rifugiati politici, bovini, ovini, suini diventeranno animali sacri, purché a basse emissioni, solo nelle terre musulmane il cibo avrà configurazioni e sapori antichi. È ovvio che costoro, facendo molti figli e mangiando proteine animali nobili, domineranno il mondo. Come può l’esangue bio vegano competere con la muscolosa sharia carnivora? Quanto dureranno le nostre dentature, attrezzate per fiorentine e bue grasso di Carrù, dopo una vita passata biascicando tofu e seitan? Eppure le nostre élite vogliono questo per noi. Così sia.
A NY stanno scomparendo (in verità anche da noi) i meravigliosi, corpulenti osti, un tempo mediatori culturali fra il cuoco (invisibile) e il cliente (al centro dell’attenzione). La scena ora è dominata dagli Chef, cucinano pochissimo, parlano tantissimo. Sembrano quelli del G7, non risolvono i problemi, raccontano (bene) come li si dovrebbe risolvere. Questi chef newyorchesi rassomigliano sempre più ai nostri stellati, li vedi così diafani (pare si specchino nei loro piatti di bianca porcellana), magri al punto da sembrare pasticcati, capisci che sono costantemente sotto schiaffo, soggetti a continue crisi di nervi per acquisire o mantenere idiote stelle (mi ricordano quelle di latta degli aiuto sceriffi del West).
Un modello di business grottesco, per abbattere i costi fanno scomparire i tavoli (e le tovaglie), così i camerieri e il maître, un unico tavolo circolare (politicamente corretto) trasforma la cena in uno spettacolo, ove lo chef sembra un cardinale, i suoi assistenti monsignori, i clienti si sentono semplici peccatori. Per curiosità ho provato ad analizzare la catena del valore dei 350 $ che ho speso per la cena da Chang al Momofuku Ko: vino e cibo li ho valutati 100 $, i rimanenti 250 $ non c’entrano con la cena, sono il prezzo di un evento, lo spettacolo della mia cena, chissà perché a mio carico. Una losca genialata, come i menu sifonati (QE) che ci propone sussiegoso Draghi, anche questi a spese dei miei incolpevoli nipoti.
Quando esci sei frastornato, ti chiedi se sei stato gabbato, è come se tu pagassi per acquistare un oggetto, non lo ottieni, ma assisti al suo processo produttivo. Hai piluccato qualche germoglio vagante, rubato qualche proteina nobile, sei stato immerso per due ore in una atmosfera di sensi, solo il vino ti ha fatto sentire umano. Non una cena, uno spettacolo.
È il ceo capitalism, bellezza!