Corriere della Sera, 14 giugno 2016
I giardini italiani sono un tesoro. Ma nessuno li cura
Una delle prime ondate migratorie dal Sud al Nord Italia fu al femminile: nella seconda metà dell’Ottocento, sciami candidi di camelie lasciarono la Reggia di Caserta e planarono sul Lago Maggiore. Molte morirono per noia e per eccesso di attenzioni (erano pur sempre borboniche dame meridionali), altre resistettero e in meno di un secolo, da immigrate, divennero le regine di quel cielo gentile. Anche la storia del Sud Tirolo è stata scritta, in parte, dai fiori: alla fine degli anni Ottanta, l’allora assessore provinciale all’agricoltura Luis Durnwalder decise che il rilancio di Merano doveva passare non attraverso edifici avveniristici, non inventando chissà quali isole commerciali, ma partendo dalla sua identità, cioè dallo spirito contadino più visionario che da sempre, lì, coincide con la devozione per la propria terra (in tutti i sensi). Nacquero così i Giardini di Castel Trauttmansdorff, un paradiso terrazzato con ottanta paesaggi diversi, oggi il posto più visitato dell’Alto Adige, con 400 mila ingressi annuali.
Questa «piccola storia d’Italia fatta dai giardini» potrebbe continuare: alla guida del parco di San Giuliano, tra Catania e Siracusa, c’è una capo giardiniera inglese, Rachel Lamb, quasi a ricordare l’autentico, ma spesso ignorato, carattere cosmopolita della Sicilia. E quanti sanno che all’ombra del giardino di Villa Raimondi, vicino a Como, Garibaldi sposò una ragazza, figlia del locale marchese, ripudiandola dopo poche ore? I compagni dell’eroe temevano infatti che la bellezza di quelle magnolie e di quella donna potessero distoglierlo dalla spedizione in Sicilia e così inventarono un inesistente tradimento della sventurata Giuseppina (che dovette aspettare quarant’anni prima di potersi sposare ancora).
Non è solo un vezzo per aristocratici«Il giardino fa parte della nostra genetica, ma per troppo tempo è stato visto come qualcosa di elitario, aristocratico. Che peccato», chiosa Paolo Pejrone, l’architetto che ha firmato alcuni fra i più bei giardini al mondo. Già: solo di recente, complice questo sentire comune che esalta la «grande bellezza» del Paese, ci si è accorti che il giardino non è solo materia di alta ciarla riservata a nobildonne eccentriche; non è solo colta disquisizione filo-anglosassone o «spiegone» da paesaggista snob vicino all’ambientalismo radicale. No, da Boboli alla Mortella fino alla più trascurata villa comunale di provincia, il giardino può essere un volano di rilancio dell’economia e del turismo. Anche perché, secondo l’analisi di Coldiretti su dati di Ecotur, la vacanza verde (quindi quella che include anche la montagna e gli agriturismi) crea un giro d’affari di 12,3 miliardi in un anno. Solo la rete Grandi Giardini Italiani, l’anno scorso, ha registrato 8 milioni di visitatori, con i suoi 120 «gioielli» verdi, pubblici e privati. Alla guida del network c’è una scozzese, l’inesauribile Judith Wade, che, sì, è innamorata dell’Italia ma ammette: «Qui si fa fatica a pensare al giardino storico come a un monumento architettonico. Eppure lo è. Italia, Francia e Inghilterra sono i tre Paesi con più giardini al mondo e con i più importanti per storia, progetto, cultura». E allora perché in Inghilterra il parco fiorito è vissuto come qualcosa di familiare (in Gran Bretagna un turista su tre visita i giardini del Paese), e qui in Italia, nel «giardino d’Europa», facciamo fatica anche a far lavorare i giardinieri? Incredibile a dirsi ma da noi persino alcuni luoghi d’eccellenza non hanno i capo giardinieri. Nel parco del San Pelagio a Due Carrare (Padova) è la stessa contessa Ricciarda Avesani che cura le splendide rose Pierre de Ronsard. Va detto che non è facile, con le risorse dei comuni, prendersi cura dei 550 milioni di metri quadrati di fiori, alberi e parchi che compongono il verde pubblico italiano. Ma, come sottolinea Massimiliano Atelli, presidente del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico del Minambiente, «lo dice la legge!», cioè la 10/2013, che prevede strumenti (spesso ignorati) per proteggere piante e fiori.
La dissipazione dei saperiAttenzione: il capo giardiniere non è un manovale, ma è colui che ha la visione d’insieme del giardino, che conosce i fiori, la storia del luogo e sa guidare un progetto. «Prima della seconda guerra mondiale – dice Pejrone – era una figura importantissima. Colto e coraggioso, discuteva alla pari con il padrone della tenuta». Poi le difficoltà della ricostruzione e la «febbre da cemento» del dopoguerra accantonarono questa professionalità che non riuscì a tornare a galla nemmeno con la presa di coscienza ambientalista che si infiammò dalla metà degli anni ’70. Perché allora il giardino finì sotto un doppio fuoco incrociato: da una parte un’élite aristocratica che lo amava, sì, ma che era restia a renderlo popolare; e, dall’altra, una politica «verde» che ne riconosceva il valore sociale (un baluardo della natura da difendere) ma meno il valore storico, culturale, estetico. Il resto lo fece la politica dei colletti bianchi, come racconta Vincenzo Cazzato, grande paesaggista, membro del comitato scientifico dell’Associazione Parchi e Giardini d’Italia: «Alla metà degli anni Ottanta alle dipendenze del Mibac c’erano 270 giardinieri. Poi, poco alla volta, molti andarono in pensione e altri preferirono mansioni diverse». Come quelle in portineria o in ufficio.
Eccolo il paradosso del quale il giardino italiano è rimasto prigioniero per anni: da una parte l’attenzione delle istituzioni e della ricerca accademica (la Carta per la salvaguardia dei giardini storici venne firmata nel 1981 a Firenze), nonché l’opera meritoria di enti come il Fai e Italia Nostra; ma, nello stesso tempo, quell’alto sapere contadino che ne è la base è stato poco alla volta consumato dalla frenesia per la cultura immateriale (la laurea a tutti i costi) e per il posto fisso dietro a una scrivania, per la bianciardiana vita agra delle grandi città. Insomma, poco alla volta sono finiti i giardinieri esperti. E quelli rimasti lavorano a fatica. Quasi impossibile dire quanti siano oggi in Italia quelli impiegati nei giardini storici. Il network Grandi Giardini ne conta 1.700 fissi e 200 stagionali, oltre a 80 agronomi, ma va precisato che nella rete ci sono anche piccoli «stati verdi» come i Giardini Vaticani, molto estesi. Tanti giardini storici di proprietà pubblica sono affidati a cooperative di lavoratori senza una conoscenza dei fiori. La cultura delle piante non è più una priorità in molti casi: la crociata culturale ha sempre preferito salvaguardare chiese e edifici. Le grandi scuole che hanno formato i più bravi artisti del verde (come quella di Roma) oggi si sono diradate al punto che sopravvive solo quella di Monza. Accanto a istituzioni come la Fondazione Minoprio di Vertemate con Minoprio, dove il percorso formativo viene accompagnato da un pragmatico «sportello lavoro» che assiste sia nella preparazione che nella ricerca di un posto.
Qui convivono mille «studenti», tra giovani appassionati e cinquantenni che hanno perso il lavoro e che trovano nel giardinaggio e nell’orticoltura una seconda vita. «A trainare la sensibilità nei confronti del giardino è proprio il settore degli orti: la coltivazione di verdure continua a interessare sia i privati che il mondo del lavoro», conferma Anna Zottola, responsabile della formazione, mettendo a fuoco un elemento importante: la riscoperta dei giardini è avvenuta attraverso quel canale fatto di autarchia produttiva, moda e vezzo metropolitano che da qualche anno ha sedotto grandi città, con Milano in testa. Grazie, dunque alla tendenza dell’orto sul balcone, alla sua narrazione radical chic, il giardino si sta riappropriando di quell’elemento che gli è mancato negli anni: il racconto.
In Italia, personaggi come Pejrone o Pia Pera (raffinata slavista che ha scelto di parlare di fiori) hanno contribuito non poco a renderlo finalmente accessibile a tutti. E il racconto è anche l’ingrediente del successo di Grandi Giardini: sapevate che il parco della Mortella, a Ischia, è stato creato e curato da Susana, moglie di William Walton, importante musicista inglese del ‘900? E che il Parco Giardino Sigurtà di Valeggio sul Mincio (Verona), nel 2015, ha raggiunto 320 mila visitatori, cifra che sfida il mezzo milione della Reggia di Caserta?
Ma proprio da feudi pubblici come la Reggia di Caserta arriva il vero segnale del cambiamento: la struttura guidata da Mauro Felicori punta strategicamente sui giardini e, stando a Judith Wade, «vuole diventare la Versailles italiana». E anche il Vittoriale degli Italiani, a Gardone Riviera, investe su fiori e piante, come conferma il presidente, Giordano Bruno Guerri: «Non è solo”verde”, ma è anche un importante perno culturale: per D’Annunzio il giardino era un elemento panico, di fusione con la natura». E la responsabile dei Giardini di Trauttmansdorff, Heike Platter, sottolinea il valore degli eventi «che rendono il giardino unico, un grande e inesauribile parco dei divertimenti». Un punto di partenza è la guida (che qui presentiamo in anteprima) di Touring Club Italiano con Apgi: 300 schede che includono anche regioni come l’Abruzzo, non sempre associate al giardino. Insomma, almeno cominciamo a contarli!