14 giugno 2016
In morte di Dario Zanon, l’uomo pipistrello che si è schiantato a 200 chilometri orari sul Monte Bianco
Alessandro Fulloni per il Corriere della Sera
Giù a 200 chilometri all’ora, volando con una specie di tutina scura, alata, che lo rendeva tanto simile a un pipistrello. Un slalom pazzesco tra rocce e conifere negli spazi di sconfinata bellezza dai 3.800 metri dell’Aiguille du Midi, sul versante francese del massiccio del Monte Bianco. Poi lo schianto mortale. Ci sono volute almeno 96 ore per accorgersi dell’incidente in cui ha perso la vita Dario Zanon, 33 anni, leggenda degli sport estremi e soprattutto del base jumping.
Il suo ultimo volo con la tuta alare risale mercoledì. Erano circa le 11 e 30. Sole nascosto dalle nubi, mentre dalla valle cominciava a salire una fastidiosa nebbia. «Condizioni meteo non buone» per la Gendarmerie di Chamonix che indaga sull’incidente. Ma Dario, centinaia di lanci in tutta Europa, si è tuffato lo stesso. «One, two, three, base, jump», ha gridato prima del passo in avanti. Poi giù a capofitto con la «wingsuit», l’indumento che trasforma le braccia in ali che permettono di salire o scendere di quota. Un missile. Adrenalina al massimo, il volo verticale che dopo una manciata di secondi diventa radente. «Dribblando» canali, speroni e fitte boscaglie. Discesa uguale a quelle innumerevoli che ha filmato (agganciandosi la videocamera con una speciale imbracatura) tra Svizzera, Francia e Dolomiti del Brenta. Video condivisi milioni di volte dai suoi followers su Youtube. Lui e il suo amico inseparabile, l’inglese Graham Dickinson, altra leggenda del base jumping con cui aveva realizzato una delle clip più spettacolari: l’inseguimento, sempre nell’Alta Savoia, rincorrendosi e sorpassandosi tra i dirupi.
Dalla visione della «Gopro», la telecamera, potrebbero venire elementi utili a capire cosa sia accaduto in quella picchiata di un paio di minuti. Il gps che Zanon (veneto di San Giorgio in Bosco, nel Padovano, due fratelli, rocciatore, cameriere a 22 anni a Ibiza, poi la passione per gli sport estremi, dal free climbing al base jumping) portava con sé ha segnalato l’atterraggio avvenuto. Senza però lanciare alcun allarme. Solo ipotesi, poi: una ventata improvvisa. La foschia che riduce la visibilità. La traiettoria di volo senza controllo. Gli spuntoni delle rocce vicinissimi. Infine lo schianto, senza la possibilità di aprire il paracadute che consente l’atterraggio in tutta sicurezza a fine balzo. A preoccuparsi per primi sono stati i familiari, senza notizie da mercoledì.
Le ricerche sono scattate sabato e il corpo di Dario è stato trovato domenica dalla Gendarmerie. Dal 1981 gli incidenti mortali sono stati 275. Nella piccola comunità italiana dei base jumper (circa 80) difficile trovarne uno con la voglia di raccontare Dario, l’amico scomparso. Un po’ come nelle corse in auto e in moto, con la morte si convive a distanza ravvicinata. Ma non se ne parla.
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Antonio Scurati per la Stampa
Il volo libero. Chi di noi non ha sognato, almeno una volta nella vita, di potersi librare in volo?
E allora perché gli emoticon a commento della notizia riguardante la morte di Dario Zanon, schiantatosi durante un volo con la tuta alare, esprimono rabbia più che tristezza? Perché quelle faccine arrabbiate e non tristi?
Dario Zanon, padovano di San Giorgio in Bosco, era un giovane uomo, caduto nel fiore degli anni (33 anni segnavano nel mondo antico il compimento della vita attiva – vedi Cristo e Alessandro Magno – ma nel nostro indicano l’ingresso in quella adulta). E per questo va ai suoi parenti e amici, alla madre, alla fidanzata, ai due fratelli, il nostro sincero cordoglio. Zanon amava lanciarsi nel vuoto dall’alto dei picchi alpini dotato solo di una tuta che riesce ad ampliare la superficie del corpo umano conferendogli un profilo alare e di un paracadute per l’atterraggio. Niente altro. E questo suscita in noi la pura ammirazione.
Però sì, c’è un «però». Le circostanze di questa morte, e di tante altre simili a essa – le statistiche registrano un morto ogni tre giorni causato dalla fatale passione per il volo – non possono non suscitare un pensiero, non solo sulla sua evitabilità, ma addirittura sulla sua gratuità. Forse qui, in questo pensiero disturbante, va cercata la ragione di quegli emoticon arrabbiati.
La vertigine del rischio mortale, l’audacia d’imprese ai limiti dell’umano – e l’uomo non è fatto per volare – hanno accompagnato l’umanità fin dalle sue origini. Di quelle origini, anzi, prima il mito, poi l’epica, e infine la storia, hanno tramandato quasi solo quelle imprese. Ma la differenza tra quelle imprese, narrate dal mito, dall’epica, dalla storia e queste, affidate alla pagina effimera della cronaca, riguarda proprio la nozione, sempre più obliata, di «umanità». Nell’eroe mitico, epico o storico, che sfidava le leggi della natura, i confini del mondo conosciuto, le anguste estensioni della nostra specie fatta di animali fisicamente inetti alla lotta per la sopravvivenza, c’era sempre un’ipotesi migliorativa, uno slancio progressivo, una perorazione appassionata a favore dell’intera umanità. L’eroe che sfidava la morte, conquistando una vetta, esplorando l’Antartico, o arrembando il cielo, lo faceva sempre, in qualche misura, in nome di tutti noi umani, nel nome di questo «animale povero» che calca goffamente la terra su due sole zampe, privo di zanne e di artigli, esposto a ogni sorta di minaccia mortale.
I pionieri del volo tra fine Ottocento e inizio Novecento dimostrano questo assioma al massimo grado. Non è un caso se i profeti del volo a motore nei primi decenni del ventesimo secolo furono anche i cantori della religione della Patria, aedi, spesso deliranti, di quel culto della Nazione cui si associò tanta parte della speranza in un futuro migliore da parte delle masse politicizzate al loro apparire sulla ribalta della storia. In Icaro, insomma, c’è sempre stato un po’ di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini.
A confronto di ciò, non si può fare a meno di pensare al carattere «domenicale», puramente sportivo, meramente dilettevole, di questa nuova dilagante passione per la vertigine del volo libero, per il rischio mortale. Piangendo le vittime di quella passione, non si può evitare di interrogarsi su questo bizzarro e sintomatico dilettantismo della morte.