La Lettura, 12 giugno 2016
Ci sono troppe serie tv. Hollywood trema
John Landgraf, numero uno del network televisivo Fx, aveva previsto tutto un anno fa: «Il 2015 o il 2016 vedranno il picco per la tv negli Usa, poi inizierà il declino. Non ci sono creativi e spettatori a sufficienza. Il ritmo di produzione è insostenibile, anche a livello di profitti, e gli azionisti presenteranno il conto». Primo a parlare di «bolla», Landgraf aveva stimato che nel 2015 si sarebbero superate le 400 serie. Ne sono state realizzate 409, contro le circa 200 di sette anni fa. Netflix investirà cinque miliardi di dollari nella programmazione, con 600 ore di contenuti originali. Aggiungete Amazon e Hulu e i miliardi sono dieci.
La pressione per il prodotto migliore fa sì che un episodio costi quanto un piccolo film. Per dirla con Patrick Moran, capo di Abc Studios, «oggi non c’è spazio per la mediocrità». Un sondaggio della piattaforma Roku per l’International Streaming Day lancia l’allarme: il 38% dei 18-34enni mente sulle serie tv realmente viste. Perché le serie sono cool ma forse hanno anche cominciato a stancare. Non ci sono abbastanza ore in un anno per guardarle, non c’è più spazio sull’ hard disk. La depressione da binge-watching, la visione compulsiva, sostituita dall’asfissia.
Succede anche da noi, dove lo sceneggiatore Filippo Bologna, David di Donatello per Perfetti sconosciuti, confessa di aver finto per anni: «Il vuoto dopo la fine di ogni serie – dice a “la Lettura” – lasciava spazio a un senso di liberazione. Come quando paghi l’ultima rata di un mutuo». Così James Poniewozik, critico del «New York Times», alla notizia che The Americans chiuderà dopo sei stagioni, esulta: «Good news ! Cancellano la miglior serie drammatica in tv. Avrà un finale degno». Perché oggi che le serie sono capolavori, guai a prolungarle oltre la vena creativa. Ma se le serie sono il prodotto artistico che più ha plasmato l’immaginario d’oggi, come ricordano Aldo Grasso e Cecilia Penati in La nuova fabbrica dei sogni. Miti e riti delle serie tv americane (il Saggiatore), realizzarne una non è mai stato più difficile.
I segnali di contrazione si vedono già. Quando House of Cards (arrivata alla quarta stagione) esordì nel 2013, Netflix mise in piedi un gran battage. Oggi molte serie non hanno neanche un cartellone di pubblicità. È l’angoscia di tutti i produttori: sai che la tua serie è là fuori nell’etere ma qualcuno riuscirà a trovarla? Un problema per gli utenti, come si è accorto il «New York Times», che da un paio di mesi pubblica una newsletter bisettimanale di consigli. Un’inchiesta di «Vulture.com» denuncia le criticità. A partire dai compensi milionari delle star. Susan Sarandon e Jessica Lange su Fx, Billy Bob Thornton per Amazon. Kevin Costner ha rifiutato cinque milioni per tre mesi di lavoro ma altri non sono così fortunati. Un veterano della tv, per un ruolo ricorrente, spesso deve accontentarsi del minimo sindacale di 7.900 dollari a episodio.
L’insoddisfazione dilaga. Anche tra gli sceneggiatori, che pure vivono un momento d’oro. Un marchio della nuova serialità sono le stagioni brevi. Invece di 22 puntate, 10 o 8. «Adoro Homeland. Ma quanti episodi ha girato in 5 anni?», chiosava Dick Wolf alla presentazione dei palinsesti Nbc dall’alto dei suoi 456 di Law & Order. E stagioni più brevi significano carriere più volatili. Liz Tigelaar di C’era una volta, per esempio. Quando anni fa American Dreams fu cancellata, si reinventò maestra di yoga. Oggi che la domanda è altissima, sono finiti i tempi dei contratti pluriennali, dei 60 milioni ad Aaron Sorkin per West Wing. Per guadagnare tocca triplicare gli incarichi. Risultato? Sceneggiatori allo stremo.
Con la moltiplicazione delle forme di offerta tv che frammenta gli ascolti, quella delle serie diluisce la qualità. E il surplus di domanda fa sì che una serie non riesca a trattenere uno sceneggiatore per tutte le stagioni. «Se le serie contemporanee sono il cinema indie di 15 anni fa – spiega a “la Lettura” Ron Simon, curatore del Paley Center for Media e docente di Storia della televisione alla Columbia University – innovazione e storytelling ci sono sempre stati. Pensiamo a Rod Serling di Ai confini della realtà, a Dennis Potter. Ciò che davvero è cambiato è la concezione della tv: da intrattenimento per famiglie all’ora di cena a strumento del singolo come, dove e quando vuole».
Anche per gli showrunner, demiurghi creativi del nuovo immaginario, non sono più i tempi di una volta. Prima bastava una serie di successo, tenerla in onda sei-sette stagioni e fare i milioni con le repliche. Oggi, tanti autori come non mai possono vantare un “creato da” ma i redditi sono precipitati. Reti come Tnt, A&E e Lifetime, che vivevano di repliche, hanno spostato i budget sulla creazione di serie originali. E con Netflix, Amazon e Hulu, i vecchi episodi si possono rivedere quando si vuole. Registi e produttori, poi, diffidano del modello Netflix, con i compensi una tantum e scarsa trasparenza su quanti realmente vedano una serie. «Se io creo un asset per Netflix e gli ascolti esplodono – lamenta a “Vulture.com” Steven Soderbergh – voglio partecipare ai profitti».
Non solo streaming. A ruota di Netflix, che manda le serie senza pubblicità, molti network già in autunno ridurranno gli spot anche del 50%. Ma vendere gli spazi a prezzi molto più elevati è un rischio. Altra difficoltà è la penuria di tecnici esperti. Solo a Vancouver (in Canada), in gergo Hollywood North, si girano 50 serie, e tutte sono in competizione per troupe e attrezzature. Gli spazi sono così al limite che nascono teatri di posa pop-up. «Sono le nuove toilette portatili», ironizza Moran. Con miliardi di dollari in gioco, la grande paura è che un ritocco al ribasso in Borsa spaventi i nuovi giganti, che si precipiterebbero a falciare i costi, facendo scoppiare la bolla. «Tutto può finire in qualsiasi momento», riflette Julie Plec di The Vampire Diaries. È già accaduto. Con Pop, il portale video di Spielberg vittima della bolla dotcom. «Era la Netflix di allora, il posto che tutti a Hollywood volevano. E di idee così ce n’erano altre mille. Poi tutti persero il lavoro».