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 2016  giugno 12 Domenica calendario

Come si scrive per lo Strega

Partiamo da lontano. Era il 1527 (forse 1528) quando a Collevecchio, un piccolo centro del contado romano, una donna di nome Bellezze Ursini fu accusata di stregoneria. Nel tentativo di sfuggire al rogo, scrisse – lei che faceva la domestica e la guaritrice – una confessione autografa in cui ammetteva tutte le assurde colpe che le erano state imputate. Poche paginette scritte come poteva, in una lingua inevitabilmente compromessa con le sue abitudini di parlante. Uno dei primi esempi di quello che i linguisti chiamano «italiano popolare».
Le regole del sabbaÈ dal 1947, invece, che ogni anno si riapre – di questi tempi – la caccia allo Strega. E allora, dalla lingua della strega a quella degli Strega: come sono scritti i libri che partecipano con successo al premio? C’è (o c’è stata) una sorta di grammatica sabbatica in grado di garantire quel successo? Se si guarda ai vincitori degli ultimi dieci anni, parrebbe di no. Basta distogliere per un attimo l’attenzione dalle scuderie editoriali e ci si accorge subito che la lingua tornita e raziocinante della Ferocia (il romanzo di Lagioia che ha vinto l’ultima edizione) ha ben poco a che vedere con quella studiatamente leggera del Desiderio di essere come tutti (Piccolo, 2014) o con la geometrica musicalità dello Stabat mater di Scarpa (2009). Difficile, allo stesso modo, accomunare la conversazione salottiera ricostruita in laboratorio dal Siti di Resistere non serve a niente (2013) con l’emotiva autofiction di Nesi ( Storia della mia gente, 2011) o con la trama spiraliforme del Caos calmo di Veronesi (2006), in cui si sprigiona una gamma di stili che va dal comico all’erotico, dall’infantile allo psichedelico. Difficile sovrapporre il neo-verismo con cui Pennacchi racconta l’esodo nella terra promessa dell’Agro pontino ( Canale Mussolini, 2010) alle metafore immaginifiche di Giordano ( La solitudine dei numeri primi, 2008) o la letteratissima ironia di Piperno ( Inseparabili, 2012) a certe pagine iperboliche di Come dio comanda (Ammaniti, 2007). A meno che non si voglia considerare come minimo comune multiplo una certa semplificazione sintattica, fatta di frasi brevi – spesso senza verbo – scandite da una punteggiatura che tende al taglio netto: «E lei doveva preparare una bugia. Una storia che stesse in piedi senza buchi o contraddizioni. Non se lo sognava nemmeno di dirgli quello che le era capitato veramente. La nebbia, ecco, colpa della nebbia» ( La solitudine dei numeri primi ); «Il resto era formicolio. Le gambe. Le braccia. Lo stomaco. La bocca» ( Come dio comanda ).
Stile semplice?A permetterci una valutazione meno impressionistica c’è lo sguardo lungo sul passato. Il Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento è un archivio testuale (curato da Tullio De Mauro e pubblicato nel 2007 per iniziativa della Fondazione Bellonci) che contiene i testi integrali – e variamente interrogabili – dei cento libri più importanti che hanno partecipato alle prime sessanta edizioni dello Strega. Una risorsa straordinaria, finora poco utilizzata, grazie alla quale scopriamo – ad esempio – che il periodare breve, fitto di punti e povero di verbi, non è affatto una novità degli ultimi anni. Né può essere considerato di per sé la prova di uno stile semplice, visto che a usarlo sono soprattutto autori come Gadda, Consolo o – più di ogni altro – Landolfi, vincitore nel 1975 con i racconti di A caso. «Un sublime pasticheur sia della letteratura europea sia della lingua italiana» lo definisce Maria Bellonci, l’ideatrice del premio.
Tanto pe’ parlà«“Tiè, bevi!” ciancicò il Cagone, cacciando dalla saccoccia la boccetta di strega mezza piena». Altri sono i tratti linguistici che mirano a riprodurre l’effetto di parlato; altre le soluzioni per far parlare i personaggi in maniera credibile rispetto alla loro cultura, estrazione, provenienza. Tra le più usate, l’innesto di modi dialettali e il ricorso alla cosiddetta grammatica del parlato: l’indicativo al posto del congiuntivo, gli anacoluti sintattici, certi usi del che o anche i vari a me mi, ma però, c(i) ho, ’sto per questo. Basta pensare, appunto, al romanesco – e alle sgrammaticature – dei due romanzi di Pasolini, passati entrambi per lo Strega senza vincere: «Questi, er più disgrazziato sta a panza ar sole, c’ha er padre dottore, avvocato, ingegnere: tutta gente che nun trema!». (Più in generale – va detto – un’apertura troppo ampia verso il dialetto e le licenze del parlato non è stata quasi mai il viatico per una vittoria allo Strega: la grammatica sabbatica, in realtà, è piuttosto paradigmatica). Nel libro intitolato Il premio Strega, la stessa Bellonci ricorda quando – nel 1960 – Pasolini attaccò frontalmente Cassola e il suo La ragazza di Bube, che alla fine sarebbe risultato vincitore. «Sono qui a seppellire il realismo italiano» recitò, in un’invettiva che suonava come un’orazione funebre. Pochi anni dopo, Cassola e Bassani sarebbero stati additati dal Gruppo 63 come «le Liale» del loro tempo.
Lessico famigliareMa in quello stesso 1963, mentre a Palermo viene fondata la neoavanguardia, in libreria appaiono – a pochi mesi di distanza – La tregua di Primo Levi e Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, poi finalisti allo Strega (a vincere quell’anno sarà Ginzburg, Levi si rifarà nel 1979 con La chiave a stella ). «La lingua letteraria italiana, oggi, è irrequieta, in essa succede qualcosa», notava la filologa Maria Corti: «Il contraccolpo del progressivo mutarsi di situazione nel settore della lingua parlata non può non agire sul sistema nervoso letterario». Parlato reale e parlato letterario. Il tracciato dei vari grafici ricorda spesso un elettrocardiogramma in cui si alternano irregolarmente sistoli e diastoli. Nondimeno, la diversa densità con cui appaiono certi tratti linguistici consente di individuare, nella storia dello Strega, quattro diverse fasi. Il confine tra la prima e la seconda cade giusto all’inizio degli anni Sessanta, quando il peso del dialetto comincia ad alleggerirsi e la grammatica del parlato a evadere, poco alla volta, dal recinto del discorso popolare. Usata anche per ritrarre l’ambiente borghese, proprio come in Lessico famigliare : «“Com’è diventato paziente!” diceva mia madre. “Come ha pazienza con questi qua! Con noi non aveva mai pazienza, ci trovava noiosi quand’era a casa. A me mi pare che questi sono anche più noiosi di noi!”».
L’eco dell’italiano medioA inaugurare la fase successiva – all’inizio degli anni Ottanta – è la vittoria di Umberto Eco con Il nome della rosa, manifesto di un postmoderno tutto concentrato sulla trama («il problema è costruire il mondo, le parole verranno quasi da sole» scriverà poi nelle Postille ). La lingua della narrativa – e quella dei premi Strega – ora si pone in gran parte nel solco di un italiano medio, estraneo sia ai dialetti che alle sgrammaticature. Da un lato si fanno meno frequenti usi ormai letterari (uno tra tutti, il pronome egli ), dall’altro tendono a scomparire i tratti più tipici della grammatica del parlato. Tra le poche eccezioni, una riguarda proprio «la strega di Zardino»: quell’Antonia che, nella Chimera di Vassalli (vincitore nel 1990), viene condannata al rogo. «Ci ho un porco di seicento libbre, giù al paese... Una gran bestia! Se mi dite che l’affare vi sta bene, domani ve lo porto e mi riprendo Antonia». È il decennio del Tolstoj di Citati (vincitore nel 1984), del Danubio di Magris e delle Nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso (finalisti nel 1987 e nel 1989): saggi narrativi di grande respiro sintattico e stilistico, lontanissimi per loro stessa natura da qualunque simulazione di parlato.
La stagione della cacciaMa agli inizi degli anni Novanta il vento cambia di nuovo. Nell’anno in cui la vittoria di Consolo ( Nottetempo, casa per casa, 1992) segna nettamente le distanze dall’italiano medio, il dialetto torna allo Strega grazie a un altro scrittore siciliano: Andrea Camilleri. La stagione della caccia non arriva neanche in cinquina, e la stessa sorte toccherà nel 1995 al Birraio di Preston : «“Vogliamo babbiare?” gridò Gammacurta, e per dare più forza alla domanda la tradusse in italiano. “Vogliamo scherzare?”». Eppure i tempi si stavano facendo maturi, come avrebbero dimostrato poco dopo Nel corpo di Napoli di Montesano (finalista nel 1999) o Via Gemito di Starnone e Vita di Mazzucco (vincitori nel 2001 e nel 2003). Romanzi in cui il dialetto è variamente declinato per riprodurre, in mescidanze diverse, quell’italiano regionale diventato ormai la lingua parlata da tutti gli italiani. Forse anche quella stagione si è chiusa già da un po’. Forse a riaprirla potrebbe essere in futuro lo stesso Camilleri, che – mentre lo Strega celebra i suoi settant’anni – ha appena festeggiato il suo centesimo libro. «Vogliamo babbiare?», direbbe senz’altro lui. Ma non avrebbe più bisogno di tradurlo, perché il verbo adesso è nello Zingarelli.