Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 12 Domenica calendario

Eugenio Alabiso, memorie di un montatore

Fu destino: “Ero diventato il principale collaboratore di Roberto Cinquini che per Leone aveva montato Per un pugno di dollari e in vista del successivo film di Sergio, Per qualche dollaro in più, mi aveva detto di presentarmi negli studi della PEA di Grimaldi per firmare il contratto. Cinquini, persona meravigliosa, morì all’improvviso. E così, a neanche 29 anni, mi ritrovai assistente del suo sostituto, Mario Serandrei, che tra un Blasetti e un Comencini, aveva dato il ritmo del racconto a Salvatore Giuliano, Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo”. Eugenio Alabiso, montatore nato nell’estate del ‘37 e filosofo inconsapevole: “A me la didascalia m’uccide”, porta l’orologio sopra il polsino: “Per affermare che anche se costano 20 euro meritano di essere mostrati”. Ha firmato più di 160 film. L’esordio di Verdone, la Longobarda di Oronzo Canà, Tomas Milian alternativamente gobbo o trucido. Alcuni non li ricorda, altri proprio non li ha fatti: “Di Grazie… nonna con Giusva Fioravanti o di Torino violenta girato da Carlo Ausino non ho mai saputo nulla. Mi ritrovai accreditato nei titoli senza aver visto un solo fotogramma”. Conosceva bene quelli di Leone perché da secondo designato venne promosso sul campo e si ritrovò in prima linea: “Serandrei era un uomo colto. Un intellettuale che in cuor suo disprezzava i film di genere e non aveva molta voglia di lavorare con Leone. In più era irritato dalla mia presenza. ‘Mi dai fastidio – diceva – non mi devi stare vicino’. Ci rimasi malissimo. Io ero abituato al calore di Cinquini, uno che sapeva che il cinema è un lavoro collettivo e che per tenermi sveglio e stimolarmi mi faceva sentire sempre dentro il progetto: ‘Dammi il prossimo pezzo che io ho intenzione di montare’, diceva. C’era un gioco umanissimo che con Serandrei sparì. Un giorno Mario si assentò e in moviola venne Leone: ‘Me fai vedè qualcosa?’. Feci partire il montato e Leone sbiancò: ‘Che ha combinato questo?’”.
Cosa era successo?
La scena di Qualche dollaro in più in cui Volonté scappa dal carcere e inizia una sparatoria con i soldati sembrava il Carnevale di Viareggio. Gli spari erano a salve e Serandrei aveva montato tutto quello che in un gran roteare di scintille svelava la finzione del cinema. Leone era sconvolto. “Ci metto le mani io, Se’, vattene a casa”, gli dissi.
Ma il montatore capo, Serandrei, non si sarebbe infuriato?
Il peggio che mi poteva capitare era di essere cacciato. Non me ne è mai fregato niente in vita mia. Non avevo niente da perdere comunque e così in un gioco di campi e controcampi, feci sparire i fuochi d’artificio. Leone era entusiasta. Sergio aveva un pregio: ti lasciava fare e sapeva apprezzare l’aiuto dei collaboratori. “Il mio l’ho fatto – diceva – fatemi vedere cosa sapete fare voi”.
Lei glielo dimostrò.
Sergio mandò via Serandrei e mi ritrovai montatore di Per qualche dollaro in più e del terzo film della trilogia: Il buono, il brutto, il cattivo.
Il capolavoro compie 50 anni.
Per celebrarlo mi hanno invitato a Burgos, in Spagna. Per ripulire il cimitero del film ormai sepolto dalla vegetazione e riportare alla luce le 10.000 false tombe sono arrivati ragazzi da tutta l’Europa.
E a lei non sembra macabro.
A me sembra bellissimo. Non sono andato spesso sui set dei film che ho montato, ma con Sergio era diverso perché Leone amava vedere i giornalieri. Ero di stanza a Madrid e quando mi chiamava caricavo la pellicola in macchina e partivo.
Come decise di diventare montatore?
A 7 anni, circondato da ragazzi molto più grandi di me, vendevo per strada le sigarette alla borsa nera. Eravamo d’accordo con Vittorio, la maschera del cinema Tuscolo di Roma. Se vedeva i militari americani che sulle camionette verdi perlustravano la zona, doveva alzare un braccio. Un giorno si presentò un gruppista della Scalera, uno stabilimento cinematografico dell’epoca. Era alla ricerca di comparse. Ci diede un appuntamento per la mattina dopo. Ci presentammo in 20 e l’incaricato iniziò a leggere i nomi. Il mio non c’era. Prese tutti tranne me. Mi chiuse la gigantesca porta della Scalera in faccia: “Me dispiace regazzì”. Non mi persi d’animo: “Vuoi vedè che chiusa una porta si apre un portone?”. E il portone si aprì.
In che famiglia è cresciuto?
Napoletani del Vomero, i miei avevano messo al mondo 8 figli. Mia madre era ostetrica, mio padre lavorava alle Poste e credo mi stia ancora inseguendo. Avevo già il posto fisso in banca, ma il posto fisso io non lo volevo. Pensavo che il cinema fosse una vacanza ben pagata e mi sbagliavo.
Il primo dei suoi 160 film è del ‘63.
Mi sono fatto un culo così. C’erano periodi in cui ne montavo 9 contemporaneamente. Ero sempre dal medico, avevo i nervi a pezzi.
Chi fu il primo a darle una vera occasione?
Da adolescente, durante le vacanze estive, arrotondavo numerando le pellicole per l’avvocato Mario Mattoli, il regista dei film di Totò, un signore: “Eugenio, basta lavorare – diceva – vammi a comprare le sigarette”. Era un modo per lasciarmi il resto senza darmi l’impressione dell’elemosina. Poi era scaramantico. Non dava mai il ciak numero 17, ma sempre il 16/bis.
Ingegnoso.
Un giorno andiamo a pescare a Fiumicino con i bilancioni. Mattoli mi chiese quanti pesci avessimo tirato su e io mi accorsi che erano proprio 17: “Sedici bis, avvocato. 16/bis ne abbiamo presi”.
Con Mattoli lavorò anche suo fratello Daniele.
Montatore anche lui. Prima dei film di Rossellini, poi di quasi tutti i film di Bruno Corbucci. L’altro fratello nel cinema era Salvatore, uno dei più talentuosi e riservati produttori italiani. Era schivo e non voleva mai apparire nei titoli, forse per una vecchia storia legata a un assegno protestato in gioventù. Così si era legato all’avvocato Grimaldi, un uomo straordinario e aveva fatto il suo mestiere senza prime pagine. Ci sapeva fare, Salvatore. E io lo adoravo. Quando chiedeva una cosa a qualcuno, quella cosa, come per magia, accadeva.
Lei aveva lo stesso dono di natura?
No, io non sono mai stato bravo a essere culo e camicia con gli altri. Non ho mai chiesto niente perché chiedere è un’arte. O la possiedi o non la possiedi.
Suo fratello Salvatore le diede una mano?
Lavorava a Serenatella sciuè sciuè di Carlo Campogalliani e mi assoldò in produzione come aiuto-segretario. Portavo in macchina Aurelio Fierro e Ave Nichi e a volte andava anche meglio: “Eugenio, devi viaggiare con 4 ragazze dalla Garbatella a Napoli”. E partivamo, felici. Nel cinema ho fatto di tutto. Durante la leva spendevo mezza giornata fuori dalla caserma per andare a Cinecittà. Lì mentre preparavo copioni per il doppiaggio e portavo materiali a Rossellini, mi capitava di fantasticare “Non voglio arrabattarmi con i filmetti”, pensavo. Credevo che il montatore avesse una propria autonomia.
E lei ce l’aveva?
Certo. Ho cercato di lavorare sempre con registi che me la riconoscessero.
Com’era il suo rapporto con Leone?
Sergio credeva che il cinema fosse delle persone che contribuivano a migliorarlo. Però era tosto ed esigente. Voleva il risultato. Gli dovevi dare qualcosa, altrimenti eri solo un povero stronzo.
Lei glielo dava?
Non ci ho mai litigato. Sergio amava agitare le mani e muoverle freneticamente quando trovava la soluzione a un problema o vedeva passare sullo schermo o negli occhi dell’interlocutore un lampo di approvazione. Quando tra le dita non teneva nulla, nessun problema. Quando invece stringeva un mazzo di chiavi, il rumore diventava insopportabile. Durante il montaggio di Per qualche dollaro in più, io e Nino Baragli, l’altro montatore, stavamo impazzendo. Io e Nino lavoravamo in due stanze diverse e sapevamo in anticipo dal tintinnio quando Sergio avrebbe fatto irruzione in moviola.
E in moviola cosa succedeva?
Aveva l’ansia di mettere in pratica le idee che gli venivano. E se una soluzione lo eccitava diventava un bambino: “Quando mi fai vedere qualcosa?”. “Un attimo, Sergio. Fai una passeggiata, torna e ti mostro tutto”. Uscendo ogni tanto si lasciava andare.
Si lasciava andare a che cosa?
Alla flatulenza. Io non volevo crederci. Tra le note di Morricone e le immagini di Eastwood, mi sembrava francamente troppo. Al mio assistente, appena Leone usciva, dicevo di spalancare la finestra. Era gennaio. Sergio tornò e trovò la Siberia: “Ma che siete matti? Non lo sentite il gelo?”. “Lo sentiamo, lo sentiamo, ma è molto meglio il freddo dei miasmi”.
Leone era un grande regista?
Era un genio. Nonostante tanti critici, da Kezich a Tornabuoni, considerassero merda lo spaghetti western. I critici poi, quando prendevano di mira la commedia, non li capivo. Se Banfi doveva far ridere e ci riusciva, perché accanirsi tanto?
Ai film delle docce, alle insegnanti, alle signore che giocavano bene a scopa e ai 40° all’ombra del lenzuolo ha contribuito anche lei.
Guida e Fenech sono colpevoli dell’incremento demografico. I mariti tornavano a casa arrapati e saltavano addosso alle mogli fingendo fossero le attrici dei film che correvano a vedere.
Tra i suoi film, La signora gioca bene a scopa?
I distributori giocavano con titoli e doppi sensi, ma il regista non c’entrava niente. Quello di quel film si chiama Giuliano Carnimeo ed è ancora vivo. Per passare il tempo, in moviola avevamo inventato una canzoncina: “Carnimeo/ Carnibotta/ sei un gran figlio de ‘na mignotta”. Una pura calunnia tra l’altro, perché Carnimeo è un educatissimo galantuomo.
Con Sergio Corbucci ha fatto 16 film.
Sua moglie giocava a carte, a lui di mischiare i mazzi non fregava niente e così veniva a rompere i coglioni in sala di montaggio. Arriva di notte, con delle enormi teglie di supplì: “Magna Eugè!”. E che magno?, gli dicevo, è quasi mezzanotte”. Sergio non aveva un carattere facile. Era competitivo. Voleva prevalere.
Avete mai discusso?
Una volta – avevo la recita di mio figlio – gli dissi che sarei andato a montare di mattina presto e poi mi sarei assentato un paio d’ore per tornare a pranzo. Lui annuì e il giorno dopo, quando mi vide prepararmi per uscire chiese dove stessi andando: “Te l’ho detto Sergio, vado alla recita”. Mi si parò davanti: “Si dà il caso che io non abbia figli e che dei figli degli altri non me ne frega un cazzo”. Aspettai 5 secondi e gli risposi: “Si dà il caso che io i figli ce li ho e agli uomini come te posso permettermi il lusso di dire vaffanculo”. Era competitivo e voleva prevalere. In un certo senso, io non ero da meno. Siamo nel 1971. Il film è Er più, storia d’amore e di coltello.
Protagonista Adriano Celentano.
Se toglie Celentano, il film non è neanche male. Nella scena delle coltellate ci voleva più cattiveria, ma Sergio aveva edulcorato l’ambiente fino a renderlo irriconoscibile. Glielo dissi: “Sergio, lui è Er più di Borgo, è una bestia, non uno studentello”. “Nun te piace?”. “Nun me piace no”. “Piace a me e tanto basta”. Era il 15 agosto, mia moglie mi aspettava in Sardegna. Stavo per partire quando Sergio si fece venire i dubbi: “A Ciccè – mi chiamava ciccetto – ma se avessi ragione te?”. Glielo rimontai. A quel punto non potevo più tirarmi indietro.
Quello con Corbucci è stato l’unico litigio della sua vita?
Per Sergio Sollima, il padre di Stefano, montai Faccia a faccia. Il film era così così, ma c’era una sequenza totalmente sbagliata. Volonté è un professore che tenta di redimere Milian, un bandito che lo ha appena sequestrato prestandogli le necessarie cure dopo un incidente avvenuto alla loro carrozza. Lo spettatore avrebbe dovuto appassionarsi alla faticosa guarigione di Milian e invece veniva distratto dagli esercizi fisici di Tomas e da certi ridicoli primi piani sui suoi muscoletti. Chiamai Grimaldi: “Tagli questa sequenza altrimenti facciamo tutti una brutta figura”. Grimaldi la tagliò e sentii le grida di Sollima: “Con me non lavorerai mai più”, me le ricordo ancora.
Insieme avete fatto un solo film. È stato di parola.
Ma vuole mettere la soddisfazione di aver eliminato una scena sbagliata? Se si trattava di sgomitare per me stesso restavo sempre due passi indietro, ma per il film mi trasformavo. Combattevo. Avevo personalità. Davo tutto, a Leone come a Umberto Lenzi che mi chiamava ‘domatore’ e che indossava sempre giacche dai colori improbabili. Insieme dicevamo tante cazzate, ci divertivamo. In fondo non c’è niente di strano: dire cazzate è un’attività logica e molto liberatoria.
Tantissimi film, pochi premi.
Venni candidato al David per Un sacco bello. In platea incontrai un amico: “Che sei venuto a fare? Non sai che se non lavori con quei 4 registi che contano non ti premieranno mai?”.
Per lei i film erano tutti importanti?
Tutti. Iniziavo a lavorarci e mi dimenticavo del valore relativo, del copione, degli attori. Luciano Martino mi diceva: “Avresti potuto fare un altro cinema, tu eri bravo”. “Ho fatto il cinema che mi appartiene”, gli rispondevo. In sala di montaggio mi è successo di tutto. Anche di piangere vedendo i giornalieri di Mani di Pietra in cui l’elicottero su cui viaggiava Claudio Cassinelli toccò il ponte con la coda e precipitò come uno straccio bagnato uccidendolo. C’è stata passione. La stessa che aveva Leone. Un giorno, mentre missiamo, arriva un cameriere con caffè e cappuccini. Guarda lo schermo e rapito dalle immagini, inciampa. La colazione devasta la camicia di Leone. Lui si alza e lo scuote. Ma non è arrabbiato. È felice: “Ma allora il film te piace!”, grida. E con il latte che cola dal colletto, lo abbraccia. Sergio era fatto così.
Perché non lavora da più di 6 anni?
L’ultimo film che mi proposero era un porno. Il regista mi chiama e mi dice: “Ti mostro una cosa”. Osservo una donna che si dimena e lui tutto felice che mi dice: “Questa è mia moglie”. Mi è preso lo scoramento. Meglio smettere. Ho visto altri tempi e sono sereno, non sono curioso di vedere quanto è profondo l’abisso.
Di quei tempi sembra non aver dimenticato nulla.
Sono passati 50’anni, non 500. Mi piace trattare il passato come se fosse un pezzo di futuro e ci sono cose che mi ricordo così bene che a volte vorrei parlarne soltanto al presente. C’è, non c’era. Oggi, non ieri. Ma ieri de che?