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 2016  giugno 12 Domenica calendario

Rousseau, il padre dei totalitarismi

Un ritratto impietoso di Jean-Jacques Rousseau lo ha delineato uno dei più grandi storici del XIX secolo, Hippolyte Taine, nel suo capolavoro dedicato a Le origini della Francia contemporanea, pietra miliare nella storiografia sulla nascita e sulla fenomenologia della spirito rivoluzionario. Taine presenta l’autore delle Confessioni e del Contratto sociale come «un uomo strano, originale e superiore, ma che portava fin dall’infanzia un germe di follia e che alla fine divenne pazzo completamente». Lo definisce uno «spirito ammirevole e male equilibrato», «cieco e perspicace insieme, poeta vero e malato nello stesso tempo»: un essere, insomma, che «invece delle cose reali, vedeva i propri sogni, viveva in un romanzo e morì sotto l’incubo che si era forgiato, incapace di padroneggiare e di guidare se stesso». Eppure, questo personaggio pieno di contraddizioni ha lasciato un segno nella storia del pensiero politico, legando il suo nome alla teorizzazione della «democrazia diretta». Non è un caso, per esempio, che oggi in Italia il Movimento Cinque Stelle abbia intitolato, dopo la morte di Roberto Casaleggio, la sua nuova piattaforma informatica proprio a Jean-Jacques Rousseau.
Nel pensatore ginevrino, come osservò all’inizio degli anni ’50 lo storico israeliano Jacob L. Talmon in uno splendido libro su Le origini della democrazia totalitaria, c’era una «vena paranoica» comune ad altri tre esponenti dell’«orientamento totalitario messianico» Robespierre, Saint-Just e Babeuf, tutti uomini «dotati di una peculiare mentalità nevrotica». In questo lavoro, che segnò una svolta negli studi sul totalitarismo, Talmon dimostrò come alla base del principio stesso della «democrazia diretta e indivisibile e dell’aspettativa di unanimità», proprio della concezione rousseauiana della politica, ci sia l’implicazione della dittatura. In altre parole, la «sovranità popolare portata all’estremo» grazie alla «volontà generale» di Rousseau contrapposta alla «volontà di tutti» condurrebbe direttamente al totalitarismo perché non è possibile sfuggire all’esito della dittatura se, come accade in alcuni referendum, l’appello è rivolto al popolo intero e contemporaneamente l’unanimità è assunta come postulato.
Basterebbe questa lettura che lo presenta come padre putativo della democrazia totalitaria o se si preferisce come profeta dei totalitarismi contemporanei a far comprendere la centralità di Rousseau sia come filosofo sia come pensatore politico. A lui il più grande pensatore cattolico del ’900, Augusto Del Noce, fine analista della società permissiva e delle derive totalitarie del secolo passato, dedicò un corso universitario, ora pubblicato per la prima volta con il titolo Rousseau. Il male, la religione, la politica (Editrice La Scuola, pagg. 192, euro 14,50) in una bella edizione curata da uno dei suoi allievi, Salvatore Azzaro. Negli ultimi anni di insegnamento Del Noce si era proposto di sviluppare corsi monografici che insegnassero «come leggere i classici della filosofia politica» attingendo direttamente ai testi con lo spirito «di chi deve, in qualche modo, restaurare i lineamenti della statua di Glauco, il dio marino, attraversando la selva selvaggia dei commenti». Era nato, così, il suo viaggio all’interno della produzione letteraria e filosofica di Rousseau nella presunzione dell’attualità della lettura delle opere del ginevrino sotto il duplice punto di vista «delle origini del pensiero rivoluzionario» e «dell’idea filosofica di ordine».
Per Del Noce, Rousseau è un pensatore che si pone ambiguamente a cavallo fra l’Illuminismo e il Romanticismo. Come gli illuministi contesta il concetto di tradizione e condanna le religioni storiche, ma al tempo stesso rifiuta il materialismo dei philosophes e propone, nel Contratto sociale, una «religione civile» come «articolazione della politica», nel senso che non può esistere, per lui, uno Stato senza moralità. Proprio questo concetto di «religione civile» è uno degli elementi che legittimano, e rendono fortemente plausibile, l’interpretazione di Rousseau non già come democratico-liberale, ma piuttosto quale iniziatore del pensiero democratico-totalitario. Nella storia della Rivoluzione francese, infatti, come hanno ben dimostrato gli studi di François Furet, si succedettero diverse fasi, delle quali una, quella del Terrore a partire del 1793, fu certamente giacobina e democratico-totalitaria, caratterizzata da una sorta di «religione secolare» fondata sul culto dell’Ente Supremo, intollerante e, per molti versi, simile alla religiosità laica e secolarizzata dei regimi totalitari del XX secolo.
Nella concezione che Rousseau ha della politica e di una sovranità popolare portata alle estreme conseguenze grazie, proprio, alla «volontà generale» destinata ad annullare le volontà individuali c’è, sia pur implicita, la tendenza verso una deriva totalitaria che assorbe l’individuo e lo integra in uno Stato la cui vocazione, se non il primo compito, è quello di «educarlo». E l’idea dello «Stato educatore» non lo si dimentichi alimenta tutte le manifestazioni del totalitarismo contemporaneo. Anche un importante filosofo e storico della filosofia di formazione neokantiana, Ernst Cassirer, nel saggio Rousseau (Castelvecchi, pagg. 96, euro 14,50, traduzione di Gianpaolo Bartoli) fa notare come il Rousseau del Contratto sociale esalti «con esemplarità un assolutismo senza limiti della volontà statuale».
Anche il sogno romantico di un ritorno al mitico «stato di natura», che presuppone l’idea di una «natura buona» traviata dalla storia, cela, a ben vedere, le premesse di quel «permissivismo» che, in seguito, depositato nell’«inconscio» di certi individui, avrebbe aperto la strada alle utopie rivoluzionarie dei cosiddetti contestatori e avrebbe finito per caratterizzare un’epoca della storia contemporanea divisa fra pulsioni anarchiche e suggestioni totalitarie. Qualche anno dopo il corso su Rousseau, nel 1983, Del Noce, occupandosi della contestazione studentesca e dei conati rivoluzionari del sessantottismo, tornò a occuparsi del pensatore ginevrino. Fece notare come, fra tutti i grandi pensatori, fosse stato l’unico nel quale non si potesse trovare «il germe di un’idea capace di svolgimento in senso positivo» mentre «tutte le idee cattive» vi erano rintracciabili «allo stato appunto di germe, che permette vengano presentate in aspetto fascinoso: il primitivismo, lo spirito rivoluzionario, il totalitarismo, il modernismo religioso». Meglio di così non si sarebbe potuta illustrare la sostanziale ambiguità del pensiero di Jean-Jacques Rousseau.