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 2016  giugno 12 Domenica calendario

Eugenio Monti Colla, una vita da marionettista

Nel mondo incantato di Eugenio Monti Colla serpeggia una strana malinconia. L’atelier milanese, dove vado a trovarlo, ospita migliaia di marionette. È impressionante vederle tutte assieme, in una rigidità marziale che ricorda la postura di certe parate militari. Eppure, non hanno nulla di guerresco. Semmai ricordano i sudditi, silenziosi e pazienti, di un re nascosto. Un re che si manifesta solo in certe occasioni risvegliando le parti del loro corpo. Il più celebre teatro delle marionette fu quello immaginato da Kleist. Un soffio divino percorse quel testo e con esso le creature, precarie e vulnerabili, che raccontava: «Niente può proteggerle dall’incuria e dal disinteresse. Ma nel profondo le marionette sono immortali», dice Colla.
Immortali perché?
«Non c’è alcuna differenza tra il loro essere e il loro apparire. Tra la vita interiore e quella esteriore. Sopravvivono al tempo perché sono fuori dal tempo. Kleist ne fornì una lettura originalissima e ragguardevole se rapportata alla spontaneità del gesto artistico. Diversamente dall’uomo, la marionetta non ha la consapevolezza di ciò che le accade e ciò le impedisce di commettere errori. Alla stregua di un fanciullo, la marionetta vive in uno stato di innocenza. La stessa, si direbbe, che abita la profondità dell’arte».
Diventare uomo dunque è perdere l’innocenza.
«Con tutto quello che ne consegue sul piano emotivo: l’isterilirsi della spontaneità e della grazia. Potrei aggiungere che la marionetta assomiglia a un uomo ma non è un uomo. Non è neppure una sua proiezione ideale. È un mondo a sé».
Cosa ha di speciale quel mondo?
«È il punto più alto cui l’esistenza può ambire, senza l’energia dei muscoli, della carne, del sangue. Ci sono le singole parti del corpo umano – gambe, braccia, mani, piedi, testa – ma non c’è l’uomo».
C’è tuttavia la storia cui l’uomo ha saputo dar vita.
«Il retaggio della marionetta è di vivere commista alla storia, all’epopea, alla cronaca, all’affabulazione, al dramma, alla satira, alla danza, alla mimica, al canto e, infine, all’emozione. È questo che la rende viva. La riscatta dall’essere mero oggetto. Al suo cospetto torniamo in qualche modo bambini».
Lei com’era da bambino?
«Un fanciullo curioso e immerso in quel mondo che lei è venuto a conoscere. Non può immaginare quante giornate ho passato da piccolo, spesso al buio, in compagnia di queste creature».
Perché al buio?
«Perché mi dava la sicurezza di potermi esprimere immaginando di essere al posto giusto nel momento giusto. Era il solo modo per me di andare a letto contento. Per molto tempo mi sono coricato presto la sera, con l’idea che le marionette fossero immerse nei colori immateriali degli anni. Nel tempo ritrovato, così ben descritto da Proust».
La famiglia Colla perché si dedicò alle marionette?
«Già alla fine del Seicento alcune famiglie aristocratiche e benestanti si dedicavano al teatrino delle marionette. Era una forma ludica di intrattenimento. Anche i Colla, ricchi commercianti, si lasciarono sedurre da quel genere di spettacolo. La loro attività principale era la vendita dei foraggi all’esercito austriaco. Poi, servirono la stessa merce alle armate napoleoniche. Quando ci fu la restaurazione, dopo il congresso di Vienna, gli confiscarono beni e palazzi. Tra le poche cose, salvarono le marionette. Fuggirono in Piemonte e dopo qualche anno divennero per necessità marionettisti».
In una dinastia c’è sempre un fondatore.
«Il nostro fu Giuseppe Colla. La prima data importante per ricostruire questa storia è il 1835. Su un registro ritrovato vennero annotate le spese, gli incassi e le piazze in cui lo spettacolo si svolgeva. Per tutto l’Ottocento la compagnia dei Colla fu itinerante, soprattutto al nord. Alla fine del secolo si insediò a Parma. Nel 1905 fu chiamata a Milano al teatro Gerolamo, in piazza Beccaria».
Che tipo di teatro era?
«Fu edificato su un progetto che richiamava esattamente la Scala, ma in proporzioni ridotte. L’idea era di farne da subito un luogo per le marionette. Si susseguirono un paio di compagnie prima dei Colla: i Fiando e quella di Luciano Zane. Poi arrivò la mia famiglia che trasformò il Gerolamo in teatro stabile. Gli spettacoli erano bellissimi. Sono nato non distante dal teatro e fin da piccolo ho avuto la fortuna di starci dentro. Col tempo appresi che molti personaggi importanti, da Stravinskij a Visconti, amavano frequentarlo. Visconti un giorno mandò i suoi assistenti per capire come si realizzano le scene dipinte. Preparavamo l’Anna Bolena e credo lui volesse ispirarsi alle nostre scenografie».
Il teatro a un certo punto chiuse.
«Il comune ci sfrattò nel 1957, con la giustificazione che lo stabile, ritenuto pericolante, andava demolito. Questo ci disse Aniasi, allora semplice assessore e poi sindaco di Milano. In realtà, fu un modo per cacciarci e farci altro. Vecchia storia. Ci deportarono, offrendoci un deposito comunale in periferia. Lì mettemmo tutta la nostra vita: duecento anni di attività e mezzo secolo di spettacoli».
Lei ha un doppio cognome, c’è una ragione particolare?
«Sono Colla per parte di madre. C’era il fondatore, il
trisavolo Giuseppe. Poi Carlo e i suoi quattro figli, da cui discende mia madre. E poi vengo io».
Che famiglia è stata?
«Ne ho un ricordo ambivalente. Bellissimo e terribile. A volte percepivo una severità che rasentava la crudeltà. Ma anche dei momenti dolcissimi».
Quando dice crudeltà verrebbe da pensare a un mondo chiuso, fatto di regole ferree difficili da trasgredire.
«Ho molto sofferto questo stato di cose, ma so che era il solo modo per accedere a un tipo di pratica e di insegnamento che non avrei mai potuto fare nelle scuole normali. Parlerei perciò di una forma di sacrificio. Imparavo a fare il marionettista guardando i più anziani. Ma al tempo stesso avvertivo un bisogno di aprirmi all’esterno. Mescolando culture anche distanti da quel mondo: il cinema, la lirica, la letteratura. Sapevo che occorreva aggiornare il linguaggio, osare ciò che fino a quel momento, per i lacci tirannici della tradizione, non era stato osato».
Erano progetti ambiziosi.
«Volevo verificare se il mondo delle marionette fosse solo una mia proiezione onirica, qualcosa destinato a sparire o se avesse in sé le qualità per resistere e svilupparsi. Fu una sfida che intrapresi andando a lavora re in una vera compagnia teatrale, quella di Orazio Costa. Ci restai quasi un anno. Volevo capire quanto ci fosse di teatrale nelle marionette e quanto di marionettistico nel lavoro degli attori».
Cosa ne concluse?
«Conclusi che la testa degli attori è molto più dura di quella delle marionette. Ho sofferto la loro vanità egolatrica, il loro cinismo, la loro alterigia. E in certi casi perfino la stupidità mi ha dato da pensare. Entrai in compagnia nel gennaio del 1966, ne fuggii a novembre».
Non dà l’idea di essere una persona accomodante.
«Amo quello che faccio. Ma so che la fragilità del mio lavoro richiede una cura tutta particolare. Non lottiamo con la vita e per la vita, lottiamo contro la morte».
Cosa intende?
«Lottiamo affinché la parte inanimata di quel mondo non stravolga tutto il resto, non risucchi l’esistenza in una vuota e macchinosa artificialità. Solo se l’artificio diviene gesto spontaneo la marionetta può animarsi».
Forse l’ultimo esempio marionettistico sono gli androidi
di Philip Dick.
«Gli androidi di Dick sono simulacri, esperienze che mettono a confronto il vero e il falso, la copia e l’originale. Hanno pur sempre bisogno di un demiurgo che li crei. E non è un caso che, pur ribellandosi al loro destino, cerchino un padre che dia loro delle risposte su cosa sia la vita. Il demiurgo della marionetta è il teatro stesso».
Non esisterebbero senza quello spazio?
«Non potrebbero perché quello è l’ambiente che comunica loro la vita. Fu Kantor a dire che il teatro è un atto demiurgico che rivela o scopre le sue radici nell’altro mondo. Penso che le marionette vivano perfettamente in quell’altro mondo. Nelle vene lignee dei loro corpi scorre una vita altra e misteriosa».
Intende dire che non sono semplicemente degli inerti pezzi di legno.
«Sospese tra la terra e il cielo sono creature dotate di infinita grazia».
Cosa le distingue dai burattini?
«Il fatto di avere tecniche ed espressività diverse. Il burattinaio calza il burattino con tre dita. Nel suo lavoro alza le braccia sollevate e muove le spalle. Esercizio massacrante. Il burattino, poi, è meno elegante della marionetta, ma più prorompente, più sanguigno, più greve. È un’arte popolare, praticata con teatrini mobili, che un tempo circolavano nelle campagne. Il solo grande burattinaio che ho conosciuto e che mi ha fatto ridere e piangere, rivelandomi il tragico e il grottesco, l’arcaico e il moderno di quel mondo, è Otello Sarzi. Ho avuto la fortuna di condividere con lui l’esperienza di un’Aida».
E i pupi?
«Anche qui le tecniche sono differenti. Il movimento dei pupi è più rigido, fatto di scatti, quello delle marionette più dolce. Diversa è anche la descrizione drammaturgica. Quella dei pupi si lega al ciclo carolingio. Narra di grandi gesta. Si serve di opere come
L’Orlando furioso
per raccontare un mondo favoloso. È un repertorio straordinario ma limitato e sorretto dalla bravura dei pupari che magari erano analfabeti ma capaci, per tradizione orale, di conoscere a memoria un poema dell’Ariosto o la
Chanson de Roland».
Erano dei cantastorie.
«Che si imposero soprattutto nel sud dell’Italia e in particolare in Sicilia».
Ho visto il vostro teatrino. Visitato il laboratorio.
Quanti siete?
«Un quindicina. Tutti fanno tutto. I marionettisti sono anche artigiani del legno o sarti per i costumi. Siamo un piccolo mondo antico. Ancora vitale. Abbiamo debuttato al Piccolo di Milano con Macbeth, ci resteremo con lo spettacolo fino a domenica prossima».
So che è stato un vostro successo in America.
«Nel 2007 lo portammo a Chicago. Fu un successo incredibile. Poi a New York. Tim Robbins, dopo aver visto lo spettacolo, venne a trovarci chiedendoci un aiuto per un suo Arlecchino».
Non avete più una sede fissa.
«L’abbiamo, è quella annessa al laboratorio. Un po’ avulsa. Giancarlo Menotti amava le nostre marionette che lo facevano tornare bambino, ci ha lungamente ospitato a Spoleto».
Chi altri si è appassionato al vostro mondo?
«L’elenco è lungo. Da Maurice Béjart a Rostropovich, da Claudio Abbado a Franca Valeri. Paolo Poli ci adorava. Posso dire che non ha mancato un funerale dei vecchi Colla. Senza che nessuno lo invitasse sentiva il bisogno di rendere questo estremo omaggio».
È dura la vita di un marionettista?
«È molto faticosa. Per realizzare il Macbeth siamo in undici sul ponte di manovra, ciascuno con i suoi fili e la propria marionetta. Darsi i tempi, scambiare gli spazi, avere una posizione permanentemente piegata, a quasi tre metri di altezza, non è semplice. La mia spina dorsale ne ha molto risentito. I dolori a una gamba mi hanno tenuto fermo per quasi un anno».
Lei in fondo è il capocomico.
«Più comico che capo. Mi occupo della stesura e revisione del testo, allestisco la messa in scena e partecipo allo spettacolo. Ogni anno è più faticoso. Ho fatto in tempo a conoscere i grandi attori di teatro. Da ultimo Carmelo Bene. Non è irrilevante che volesse alla fine recitare come una marionetta».
Anche Pasolini, in fondo, restò folgorato dal marionettismo e realizzò “Che cosa sono le nuvole”.
«Fu una rilettura dell’Otello con Totò nella parte di Iago e Ninetto Davoli di Otello».
Pasolini li fa finire su un camion della spazzatura.
«E loro marionette sdraiate nella mondezza, con gli occhi rivolti verso l’alto vedono, con meraviglia, per la prima volta le nuvole. Anche nei momenti peggiori, quelli in cui si è destinati a finire in una discarica, si può ammirare la grandezza del cielo».
Cosa fa quando non si occupa di marionette?
«Leggo, scrivo, cucino. Ogni tanto guardo l’obbrobrio televisivo. Non mi diverto, o faccio finta di divertirmi. Il mio mondo vero è l’altro».
Non pensa che possa finire o che forse è già finito?
«Sono io che sto finendo, non il mondo delle marionette. La mia famiglia mi ha a volte giudicato un irresponsabile. Eppure per tutta la vita ho solo pensato alla sopravvivenza di questa forma teatrale. Credo di esserci riuscito. Ed è un merito che mi ascrivo».