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 2016  giugno 12 Domenica calendario

La neuroscienza del cinema che ci farà vivere dentro le immagini proiettate

Ormai da diverso tempo gli studi di cinema hanno cominciato a domandarsi sempre meno “come funziona il cinema?”, per tornare a chiedersi, come alle origini, “che cos’è il cinema?”. O meglio: dov’è il cinema, in un tempo in cui le sue tracce popolano i supporti e le esperienze più diversi. Dopo aver digerito gli schemi della semiologia, della narratologia, della psicoanalisi, i teorici oggi tornano a considerare il cinema nel suo insieme come qualcosa di cui capire il senso. Il che, da un certo punto di vista, è ovvio, visto che oggi il cinema è una forma di immagini tra le altre, e non bastano a definirlo né il supporto (la pellicola, ormai quasi scomparsa) né il luogo di proiezione (la sala è una forma di visione minoritaria) né il rapporto diretto, fotografico con la realtà (la realtà sullo schermo è infinitamente manipolabile). In questo percorso, sono tornati di attualità classici che sembravano lontanissimi. Certi teorici del muto, che ci riportano di fronte allo shock di chi si confrontava con un oggetto nuovo. Oppure libri che non hanno forse mai avuto la giusta eco in Italia. Come è il caso di Il cinema o l’uomo immaginario di Edgar Morin, uscito in Francia giusto 60 anni fa, e pubblicato da noi negli anni ’60 e di nuovo negli anni ’80, ma mai veramente di moda. Oggi il suo autore, monumento vivente della sociologia e della filosofia, ha 94 anni, e quel lontano libro (edito da Cortina) contiene molti germi del suo pensiero successivo. Ma esso entra anche in relazione con questioni attuali che riguardano il mondo delle immagini.
Morin vede nel cinema l’erede di alcuni meccanismi profondi della psiche umana e addirittura del pensiero magico, a cominciare dalle figure del doppio e della metamorfosi.
In questo modo, l’opposizione tra il realismo di Lumière e i trucchi di Méliès gli appare superata: le radici magiche del cinema e la sua potenza di riproduzione della realtà non si escludono affatto a vicenda, ma hanno bisogno le une dell’altra. Lo stupore iniziale, lo shock causato dal cinema, il suo proporsi come immagine di una realtà che è in completo mutamento e che costituisce un doppio dello spettatore, diventano nel corso della sua storia qualcosa di quotidiano. Da effetto speciale, diventano grammatica: dissolvenze, montaggio, sovrimpressioni. Ma la magia primordiale continuerà a scorrere sotterraneamente, alimentando la potenza e l’incanto del cinema. E creando un paradosso: ciò che c’è di più soggettivo (il sentimento, l’anima), si incarna in una macchina. La magia non si contrappone alla tecnologia che ha reso possibile il cinema, ma vi trova anzi una nuova dimora. «Il cinema è proprio questa simbiosi: un sistema che tende a integrare lo spettatore nel flusso del film. Un sistema che tende a integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore». Se il cinema somiglia alla nostra mente, sostiene Morin, è perché anche la nostra mente somiglia al cinema, perché grazie ai film comprendiamo «quel piccolo cinema che abbiamo nella testa». Come nota Chiara Simonigh nell’introduzione alla nuova edizione del libro, oggi che si parla di ossimori come “realtà virtuale”, “docufiction”, “reality show” il libro di Morin sembra ritrovare una imprevista attualità.
E in effetti alcuni di questi spunti tornano, con accenti ovviamente diversi, in certe ricerche recenti. Ad esempio, nella stessa collana che ripubblica il libro di Morin era uscito l’autunno scorso Lo schermo empatico di Vittorio Gallese e Michele Guerra, che cita il teorico francese (assieme ad altri grandi nomi dagli anni ‘20 ai ’50, come Walter Benjamin o Maurice Merleau-Ponty) come un antenato. Gallese e Guerra ripensano il rapporto tra spettatore e film alla luce delle nuove teorie neurofisiologiche, in particolare la teoria dei neuroni specchio, ma nello stesso tempo, nella loro nuova prospettiva, rileggono la teoria del cinema passata. Nella loro prospettiva della “simulazione incarnata”, cioè di un rapporto, mentale ma anche fisico, dello spettatore, che (direbbe Morin) si integra nel flusso del film e lo integra nella propria psiche, infatti, assume una grande importanza la dimensione corporea dell’esperienza cinematografica. Dalle loro ricerche emerge tra l’altro una “multisensorialità” dell’esperienza dello spettatore, un coinvolgimento non solo della vista ma anche degli altri sensi, particolarmente evidente oggi che la visione del film su computer, tablet ecc. si fa sempre più “tattile”. Due teoriche americane, Laura Marks e Jennifer Barker, avevano approfondito questa dimensione diversi anni fa, in libri dai titoli eloquenti come Touch: Sensuous Theory And Multisensory Media e The Tactile Eye: Touch and teh Cinematic Experience. Gallese e Guerra notano che anche vecchie volpi dell’industria, George Lucas e Steven Spielberg, hanno fiutato l’aria. Se Lucas prevede la migrazione del cinema sulle piattaforme online, Spielberg si spinge oltre e afferma che ormai schermi, monitor, insomma rettangoli con immagini di qualsiasi misura, sono superati. “We’ve got to get rid of that”, dobbiamo sbarazzarci di tutto questo, ha detto, e portare lo spettatore (che viene però, ricordano Gallese e Guerra, «definito significativamente player») dentro l’esperienza.
Oggi le due parole chiave di Morin, doppio e metamorfosi, non sembrano più momenti di un’esperienza controllata, mediata, ma sembrano esplodere in una serie di supporti ed esperienze nuovi, frastornanti, quasi inquietanti. Come fondamenti di una nuova dimensione estetica in senso letterale: una nuova percezione del mondo e della propria identità, in cui il cinema è da un lato un antecedente e un modello, dall’altro una sopravvivenza che migra altrove o che diventa contenitore di nuove forme narrative. A conferma dell’attualità di questo filone, è di imminente uscita un numero speciale della rivista Imago dedicato a
Oltre il corpo del cinema. Reti, virtualità, apparati, a cura di Christian Uva e Vito Zagarrio, con saggi sui “social network come ambienti pervasivi digitali” o sulle “esperienze di cinema più che immersivo: dalla Realtà Aumentata alla Realtà virtuale fino al Cinema Neurale”, con una sezione specifica sull’universo dei nuovi videogiochi. E per cominciare ad affrontare questo panorama, si può dare un’occhiata a un altro libro recente, Visioni digitali di Simone Arcagni (Einaudi). Ci sono intanto una serie di nuove forme, che presuppongono una nuova interattività, una nuova postura mentale (e corporea) dello spettatore. In generale si assiste a un processo di softwarizzazione: «Non guardiamo più film, programmi televisivi, giornali, video bensì software». Ma soprattutto, l’ultima frontiera sono i sensori che permettono un’attività sempre più immersiva: Kinect (un dispositivo per X-Box che consente al giocatore di interagire con la console direttamente attraverso il proprio corpo e la voce e l’ambiente circostante), Google Glass, Leap Motion (che proietta il videogioco su tutte le pareti della stanza). La sfida finale di queste “immagini che ingoiano” sarà forse, ipotizza Arcagni, quella tra gli occhialetti e il casco. La figura del futuro comunque non sarà il buon vecchio cyborg, uomo innervato di metalli sottocutanei delle profezie fantascientifiche, ma l’inforg: «organismi che fanno parte di un sistema complesso condiviso da agenti biologici e virtuali. Scordiamoci quindi i cavi e i chip sottocutanei alla
Terminator, e proviamo a immaginare un uomo integrato in uno spazio sensibile ibrido, condiviso e immersivo». La tentazione apocalittica o paranoica è forte e comprensibile, ma c’è anche quella, forse peggiore, dell’accettazione entusiastica del mutamento, della novità. Il problema, forse, è di capire che spazi di autonomia, di riuso, di resistenza al potere è possibile ritagliarsi. Che spazi per la creazione artistica, per la comprensione del mondo. Come ripensare il difficile equilibrio tra il passato e il futuro, tra la dimensione individuale e quella collettiva.