Libero, 13 giugno 2016
Ritratto di Fiorenza Mursia, editrice solitaria
«Più conosco gli uomini, più amo le bestie…». C’è questa frase assai snob e assai spietata, attribuita alla scrittrice Madame de Sévigné che attraversa da sempre la vita dell’ultima amazzone del libro italiano.
Fiorenza Mursia non solo parla agli animali; questo, banalmente, lo facevano già San Francesco, Konrad Lorenz e Pippi Calzelunghe. Lei fa di più: gli animali li usa come consulenti editoriali. Fiorenza, milanese classe ’52, chioma rosso tiziano, viso e pensieri affilati e senza un filo di trucco è l’ultimo grande editore italiano indipendente, una alla quale s’accappona la pelle solo ad evocare i «raggruppamenti editoriali», le «sigle distributive», le «multinazionali della cultura». Fiorenza fa della zoofilia una forma di strategia industriale. I maligni affermano che, per pubblicare il best seller di Ernst Schumacher, Piccolo è bello, manifesto contro i trust finanziari, la signora non si sia rivolta a un economista bocconiano; bensì a uno dei suoi mastini napoletani che hanno il nome dei personaggi minori del Libro della Jungla («Quelli chiamati come i personaggi maggiori, tipo Baloo, sono tutti morti, e io non do mai lo stesso nome»). O, sempre i maligni, suggeriscono che, per dare alle stampe Il segreto dei Marò, il libro di Toni Capuozzo che ha «smosso le acque sulla vicenda dei fucilieri» più che il marito Enzo o la figlia Huguette – che pure un po’ di editoria ne masticano – la signora abbia consultato, democraticamente: i due cavalli che non monta e che le trotterellano in giardino; la colonia indefinita di felini selvatici che le affolla il soggiorno; e il conclave d’asinelli disposti a mo’ di corazzieri davanti al garage, il cui parere conta di più di quello di Italo Calvino quando faceva l’editor per l’Einaudi (e di solito gli asini ci azzeccano, non per nulla ha dedicato loro «una piccola collana...»). I detrattori più arditi sostengono, addirittura, che la passione feroce per gli animali dell’editore – equiparabile solo a quella per le rose e per le polene marinare donate, con dolore, al Museo della Scienza – l’abbia spinta a disertare importanti consigli di amministrazione nel giorno in cui si doveva raccogliere il fieno per gli equini; e che al suo posto avrebbe mandato Quam Quam, un chihuahua dal nome latino esperto in chiusure di bilanci e partita doppia. La prima indiscrezione è vera. Credo anche la seconda, ma non è provata.
NEL NOME DEL PADRE
Ma è un dato di fatto che Fiorenza Mursia dalla sua casa-maniero di Merate in Brianza, ogni santo giorno, carica sulla Land Rover una decina tra quadrupedi, bozze, cartelle e documenti per recarsi in ufficio e mantenere la sua piccola impronta nella storia dell’editoria. Fiorenza, che ha iniziato come correttrice di bozze a 17 anni «addormentandosi sui libri», vive nel solco eretico del padre Ugo. Ossia di un ex rappresentante di libri scolastici, due lauree – giurisprudenza e lettere – che avrebbe voluto fare il bibliotecario; ma che, innamorandosi della letteratura e del mare (pur soffrendo il sole e il mal di mare, piantandosi a prua di velieri intabarrato come un eskimese) divenne lo scopritore italiano di Joseph Conrad, il primo editore di scolastica del Paese e il guardiano della memoria nazionale a partire dalla drammatica pubblicazione delle Centomila gavette di ghiaccio di Bedeschi. Tale padre, tale figlia. Fiorenza è quella a cui piace, quasi masochisticamente, schiantarsi contro mode e establishment: quando domina il mito resistenziale lei pubblica memorie dei ragazzi di Salò, quando avanza l’ondata revisionista dà alle stampe la monumentale opera di Tranfaglia e Mantelli sull’universo concentrazionario: 5 volumi per oltre 10 mila pagine, incluso l’elenco con 24 mila nomi e relative biografie di deportati politici. Quando si annuncia la morte della poesia dà vita alla collana Argani e finanzia cartelloni pubblicitari con brani poetici. Per non dire di Felinamente, casa editrice totalmente dedicata ai gatti che fonda dopo esser diventata amministratore delegato alla morte del padre e dopo i contrasti con la vaporosa madre Giancarla che volle sostituirla nel cda di Einaudi casa editrice, di cui Mursia aveva rilevato una buona quota. E per non dire del periodo, a 22 anni, da speaker e direttrice a Radio Monte Stella, un bilocale in centro a Milano acquistato da Radio Lussemburgo che diede lustro alla cosiddetta radiofonia «libera» anni 70.
Anche oggi che affronta il periodo peggiore del settore dominato dai «grossi che mangiano i piccoli»; anche adesso, tra librerie chiuse, clienti scremati o persi, il trasferimento necessario della sede storica da via Melchiorre Gioia, le burrascose vicende delle società Radio & Reti del marito Enzo Campione, ex compagno dal ginnasio; anche ora, dicevo, Fiorenza si ostina a non vendere, a stare «con le librerie indipendenti, vado dove esistono ancora i librari. Sono un editore classico che si rivolge a un pubblico che sceglie di scegliere». Il suo business è dimezzato, il mercato è sull’orlo dell’implosione? «Poi ci si abitua» ribatte lei «mia mamma diceva: quando sei nella palta impari a nuotare». O a guidare. Quattro anni fa, in nome di questa follia dell’indipendenza, costruì Passpartù, un tir autoarticolato immenso, contenente una libreria ambulante con 1200 titoli; vi si mise alla guida e calcò le province d’Italia, da Cosenza alle valli bergamasche. Non deviò il corso delle grande distribuzione, ma ottenne molti ammiratori. E la patente C.
Tecnicamente Fiorenza Mursia tende al bonapartismo. Un’amabile rompicoglioni, detto fra i denti. E non mi riferisco solo al fatto che, da fanatica delle arti marziali – cintura nera secondo dan – scoperte a cinquant’anni, obblighi i suoi poveri impiegati, in stile Fantozzi, a scendere, in palestra per allenarsi col maestro di karate che si materializza in pausa pranzo, «invece di mangiare, noi andiamo sotto in palestra e ci picchiamo…». No, questo, semmai, lei lo giustifica come un’inarrivabile «forma di autodisciplina». E, tra l’altro, mi dicono che le stia nascendo anche la fissa dello yoga, auguri ai dipendenti. Specie ai pochi maschi, assunti per i lavori che le editor femmine (l’80% dell’azienda) non vogliono più fare. Ecco, quando dico che è inflessibile fino ai limiti della tigna, mi riferisco a questa faccenda della sua preferenza per le quote rosa: «L’editoria è un mestiere femminile. Se metti un libro in mano a un redattore uomo, quello tende ad impossessarsi del libro. La donna invece per tendenza è disposta ad aggiustare, a rammendare. Fa l’editor vero, non li costruisce col marketing». Il che sarà vero, ma per un maschio è seccante.
ALL’ATTACCO
E, inoltre, mi riferisco al fatto che quando rompe, Fiorenza Mursia lo fa con malcelato clamore. Nel 2008 lascia il Salone di Genova (Mursia è lo storico editore del mare in Italia, oltre 400 i titoli in catalogo) denunciando la deriva della cultura nautica nel nostro paese sempre più orientata verso i «magnati russi» e sempre più distante dai valori della marineria e dalla cultura del mare «per tutti». L’anno prima ancora aveva ritirato la casa editrice dal Salone del libro di Torino che, all’epoca, considerava un dispendio di risorse pubbliche che meglio si sarebbero potute impiegare per sostenere le librerie indipendenti e garantire presidi di lettura su tutto il territorio. Nel 2009, a crisi economica iniziata, fa clamore un suo intervento sull’Indipendente – pubblicato in prima pagina con il titolo «Strozzati dalle banche» – in cui denuncia il credit crunch che sta ammazzando le piccole e medie imprese. È stata forse il primo imprenditore a dare voce alla catastrofe che si stava abbattendo sulle pmi italiane; se ne ricordano le invettive dalla Gruber e da Santoro. Solo quelle due. Anche perché, di solito, il suo volto è ignoto ai più. Fiorenza non ha foto sue in casa, non si fa riprendere, ha la vita sociale di un Grizzly dell’Ontario.
VIALE MAZZINI
L’unica volta che la politica s’è accorta di lei è stato nel ’96, quando l’allora presidente del Senato Mancino la chiamò mentre lei sorseggiava del Chianti nella sua villa di Portofino: «Signora noi l’avremmo scelta come consigliere d’amministrazione della Rai», quando i consiglieri Rai valevano ancora qualcosa. Ai cda, mentre il presidente Siciliano si alzava spesso, ufficialmente per far pipì (ufficiosamente per informarsi meglio di cosa si parlasse), Mursia e la collega Olivares, in quota Berlusconi, ritenevano doveroso – come dire? – efficientare l’istituzione. «Il giorno prima del cda mi consegnavano 2/3 chili di documenti sull’argomento della riunione; io li studiavo di notte con cura, telefonando ai miei avvocati. Abituata a lavorare in azienda con decisioni veloci di cui mi assumevo responsabilità, lì mi accorsi di non contare nulla. Anzi, rompevo. Mi diedero l’incarico di controllo delle sedi regionali». Epiche le sue inutili missioni nelle redazioni Rai di Barbagia o Basilicata. Fu, quello, il suo unico impegno pubblico.
Rientrata alla base, Fiorenza ebbe il tempo di rifiutare a Umberto Eco la cessione di un suo libro e di concederla, invece, a Eugenio Corti «che era stato molto più carino»; di ringraziare il suo mentore Milo Milani che le aveva suggerito di continuare a scrivere fiabe per bambini (cosa che lei, ovviamente, non fece); di aprirsi alla gioia per la nascita della nipotina Verde e di chiudersi nel dolore per la morte della madre Giancarla. Tra alti e bassi, soddisfazioni editoriali e scazzi con gli autori, Fiorenza Mursia rimane come i suoi libri: dice «quel che deve» e non si pente, quasi mai. Nessuno sa, essendo lei totalmente a-tecnologica (appena tocca la tastiera di un pc, il pc magicamente si blocca), se il suo mondo le sopravviverà, e se ci sarà qualcuno in grado di scriverne le gesta. Ad oggi il ghost writer più accreditato tra i suoi collaboratori dicono sia un giovane labrador dall’insolente capacità di scrittura…