Libero, 13 giugno 2016
Ignazio Visco, il governatore che dorme
A Ignazio Visco vanno riconosciuti due meriti. Il primo è lo zainetto. Pur vivendo nell’universo parallelo dei banchieri, dove il prestigio si misura dal valore della valigetta in pelle, preferibilmente di risparmiatore, lui si mostra senza imbarazzi tra Oslo, Francoforte e Roma con uno zainetto blu in nylon, di quelli in uso tra i giovanissimi e in vendita su Ebay a 39 euro e 99 centesimi. Scelta vegana che le povere bestie da macello dovrebbero apprezzare. Il suo secondo pregio è che, contrariamente a quanto alcuni credono ancora oggi, tra lui e l’ex ministro ulivista Vincenzo Visco, affettuosamente ribattezzato Dracula dai contribuenti sopravvissuti al suo mandato, non c’è parentela.
Le benemerenze del governatore della Banca d’Italia finiscono più o meno qui. Non che il resto siano tutti difetti. Semplicemente, il nostro non brilla per personalità. O, come dicono quelli che gli vogliono bene, «Ignazio è bravo a tenere nascoste le proprie qualità». Ma bravo davvero. Del resto, se c’è un posto dove il basso profilo paga, è proprio il palazzone di via Nazionale costruito alla fine del milleottocento dall’architetto Gaetano Koch. Ed è grazie alla sua abilità nello stare sempre un passo o due dietro agli altri che oggi Visco occupa quella poltrona.
IL CANDIDATO DI NESSUNO
Correva l’ottobre del 2011 e c’era da trovare il rimpiazzo per Mario Draghi, in procinto di lasciare Roma perché promosso alla Banca centrale europea. Silvio Berlusconi, che senza saperlo stava consumando i suoi ultimi giorni a palazzo Chigi, caldeggiava la nomina di Lorenzo Bini Smaghi, che altrimenti minacciava di non mollare l’incarico nel board della Bce, facendo incavolare i francesi (cui sarebbe spettata la casella) come nemmeno San Marco Materazzi nella finale del 2006. Il ministro Giulio Tremonti, d’intesa con Umberto Bossi, spingeva per il direttore generale del Tesoro, il milanese Vittorio Grilli. Draghi desiderava promuovere il direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, che Tremonti invece voleva fermare proprio perché era il candidato di Draghi. Tutto normale, insomma. Solo uno non lo voleva nessuno: Visco Ignazio, classe 1949, vicedirettore generale della Banca d’Italia, entrato a via Nazionale subito dopo la laurea. A 62 anni, il nostro faceva progetti per la pensione.
Ma avete letto l’elenco dei nomi sopra? Berlusconi, Tremonti, Bossi, Draghi: manca nessuno, di quelli che all’epoca contavano sul serio? Appunto. La situazione la sbloccarono Giorgio Napolitano e Gianni Letta: personaggi provenienti da storie diversissime, ma ai quali basta un incrocio di sguardi per intendersi. Se su tutti gli altri c’è un veto e i dirigenti di Bankitalia non vogliono un altro esterno dopo Draghi, ragionarono i due attingendo al manuale d’istruzioni vergato da monsieur de La Palisse, non resta che puntare sull’unico interno che non è stato bloccato da nessuno, perché nessuno l’ha proposto. Fortuna volle che il prescelto fosse anche il vice-direttore di Bankitalia più anziano in servizio, il che conferì all’operazione una patina di oggettività.
Ex enfant prodige (è stato il più giovane capo dell’ufficio studi e il più giovane funzionario generale nella storia di Bankitalia), carriera tutta interna a via Nazionale, unico nemico riconosciuto il reprobo Antonio Fazio, Visco è ritenuto un economista solido, con il vantaggio ulteriore di essere personaggio poco brillante e non una rockstar di fama mondiale come Draghi. La sua nomina presentava un’unica controindicazione: è napoletano. Come l’allora presidente della Corte costituzionale, Alfonso Quaranta, l’allora presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, e l’allora presidente della Repubblica. Una colonizzazione partenopea delle istituzioni che i leghisti non mandavano giù. Ma non poteva essere certo Napolitano a ritenere la napoletanità un handicap. Si accordò con Letta, che girò il nome di Visco a Berlusconi. «Ma chi, il comunista?» chiese accigliato il Cavaliere. «No», lo tranquillizzò l’altro. «Il fratello?». «Nemmeno». «Speriamo bene». Di sicuro a Draghi, che lo aveva avuto come vice nei grandi appuntamenti internazionali, andava benissimo; a Tremonti molto meno, ma non poté fare altro che ingoiare il rospo. Ritenuto fondamentalmente innocuo, Visco diventò così il settimo successore di Luigi Einaudi.
RITRATTO IN GRIGIO
Ingenui e speranzosi, i direttori di tutti i giornali d’Italia misero i cronisti migliori alla ricerca di sapidi aneddoti sulla vita del paracadutato sul trono di Draghi. Tempo poche ore e i malcapitati capirono che l’articolo della loro vita sarebbe stato un altro. Fioccarono ritratti in fotocopia dai quali si apprese che il nuovo governatore ha tre figlie, che da Napoli si era trasferito a Roma, dove aveva preso la maturità classica al liceo Tasso, e che non digerisce la cucina francese. La Stampa riuscì a scovare un ex compagno di scuola di Visco, il quale assicurò che il futuro governatore era «diligente e amicone, serio ma con lo spirito ironico ereditato dalla natia Napoli». Nient’altro, perché nient’altro c’era da dire.
Anche dal punto di vista politico Visco non regala soddisfazioni. Come Draghi è stato allievo di Federico Caffè, l’economista keynesiano (cioè favorevole all’uso della spesa pubblica come motore dell’economia) di cui si persero le tracce nel 1987. L’altro suo maestro è stato il premio Nobel per l’Economia Lawrence Klein, che fu consulente del democratico Jimmy Carter e avversario di George W. Bush e che Visco aveva conosciuto nell’università della Pennsylvania. Insomma, nella migliore tradizione di Bankitalia, Visco è un economista «attento al sociale», come si dice di quei cultori della scienza triste che pendono un po’ a sinistra, e questa sua venatura rossiccia emerge quando si parla di imposte patrimoniali. Poche settimane prima di diventare governatore aveva detto in Parlamento che «l’Italia è caratterizzata da un’imposizione sulla proprietà immobiliare relativamente bassa» e si era lamentato perché il nostro è «l’unico Paese ad aver abolito l’imposta sul possesso dell’abitazione principale». Da quando è governatore ha cambiato un po’ i toni, ma non le idee: il mattone deve dare più soldi allo Stato, anche perché bisogna finanziare l’istruzione, vecchio pallino di Visco.
A UN PASSO DAL COLLE
L’Olimpo lo sfiora nel gennaio del 2015, quando la paralisi istituzionale riguarda nientemeno che la nomina del successore di Napolitano al Quirinale. Anche stavolta si cerca qualcuno che non dia fastidio a nessuno e abbia il profilo istituzionale giusto: il nome di Visco resta in ballo fin quando Matteo Renzi non tira fuori Sergio Mattarella, uno dei pochi che i suoi compagni di partito non potranno impallinargli. Il Fato pretende dunque che Visco resti dov’è sino alla scadenza del mandato, che dura sei anni ed è rinnovabile una volta. Se cerca un motivo di consolazione, lo trova nell’estratto conto: in Banca d’Italia, dove in nome dell’autonomia si rifiutano di applicare il tetto agli stipendi valido per il resto della pubblica amministrazione, continuerà a guadagnare 450mila euro lordi l’anno, trentamila in più del presidente della Bundesbank, mentre al Quirinale ne avrebbe incassati appena 240mila.
La presenza di Visco è anche garanzia di un futuro sereno per i 7.032 dipendenti a tempo indeterminato di palazzo Koch, pure loro titolari di emolumenti negati ai comuni mortali, con la nobilissima motivazione – sottoscritta da tutto il direttorio – che «l’Istituto debba mantenere la capacità di attrarre i migliori giovani che si affacciano al mondo del lavoro, anche offrendo retribuzioni competitive su scala internazionale, pena una perdita di autorevolezza all’interno dell’Eurosistema». È per difendere l’orgoglio nazionale, dunque, che nel 2015 il monte stipendi della Banca d’Italia è aumentato di 6,4 milioni, mentre il resto delle istituzioni, presidenza della Repubblica inclusa, impugnava le forbici. Il mondo di Visco è un posto bellissimo, insomma. Fin quando quella innocuità cui deve l’incarico non diventa un problema per qualche migliaio di risparmiatori. Se a Draghi basta mostrare i canini per incutere terrore negli squali della finanza internazionale, la vigilanza di Visco – ultimo ruolo serio rimasto all’authority di via Nazionale dopo l’avvento dell’euro – non fa paura a nessuno. Così, quando si apre il coperchio, viene alla luce il vaso di Pandora dell’orrore: mentre il controllore Bankitalia dormiva, i controllati Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti hanno bruciato 2,6 miliardi dei correntisti. Visco rivendica le numerose ispezioni fatte negli ultimi anni dai suoi uomini, come se la quantità dei controlli fosse sinonimo di efficacia; gli sbancati rispondono sventolando cartelli con l’ammontare dei risparmi di una vita andati in fumo. Col senno di poi, a palazzo Koch qualcuno ricorda sottovoce che in effetti Visco, bravo in econometria, è diventato governatore pur essendo digiuno in materia di vigilanza, e a ben vedere anche di politica monetaria, alla quale pure dovrebbe contribuire, visto il suo incarico nel consiglio della Bce.
Renzi, che sulla storia delle banche si gioca la permanenza a palazzo Chigi, avrebbe volentieri anticipato la fine del mandato di Visco, che scade nel novembre del 2017. Glielo ha anche fatto capire: a dicembre ha affidato a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, gli arbitrati per le vittime del crac dei quattro istituti. Serve «un soggetto terzo, autorevole», ha spiegato il premier. È quello che dovrebbe essere Bankitalia: infatti raccontano che il governatore, offeso, per qualche minuto abbia persino pensato alle dimissioni. Vero o no che sia, l’intervento di Mattarella ha ricomposto il dissidio, almeno in apparenza. Così Visco può continuare a girare il mondo in prima classe con il suo zainetto blu. Prossima missione: guadagnarsi la riconferma, operazione già avviata spargendo miele sulle riforme del governo. Entusiasti i settemila dipendenti di via Nazionale, un po’ meno i 39 milioni di correntisti.