il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2016
L’atto sessuale è ridicolo e la pornografia è falsa
L’atto sessuale e il comico: sembra che queste due idee si escludano radicalmente – l’atto sessuale non sta forse per il momento del massimo coinvolgimento intimo, nei confronti del quale il soggetto partecipante non può mai assumere un atteggiamento da ironico osservatore esterno? Proprio per questo motivo, tuttavia, l’atto sessuale non può che apparire ridicolo, almeno in minima parte, a coloro che non sono direttamente coinvolti; l’effetto comico nasce proprio dalla discordanza tra l’intensità dell’atto e la calma indifferente della vita di tutti i giorni. Per un “sobrio” occhio esterno, c’è qualcosa di irriducibilmente divertente (stupido, eccessivo) nell’atto sessuale – è impossibile non richiamare qui l’indimenticabile rifiuto dell’atto sessuale del Conte di Chesterfield: “Il piacere è momentaneo, la posizione è ridicola ed è dannatamente costoso”.
L’atto sessuale nella sua dimensione estatica è così propriamente irrappresentabile. Non è semplicemente una questione di pura estasi al di là delle regole che non può mai essere catturata da un esterno sguardo disinteressato. L’incontro tra le regole (simboliche) e il pathos fallisce per definizione: non solo seguire le regole non garantisce mai l’effetto desiderato; talvolta la procedura opposta, una resa diretta all’estasi, è anche più catastrofica. Ogni buon manuale sul sesso ci dice che, in caso di impotenza, la cosa peggiore che un uomo possa fare è seguire l’imperativo: “Dimentica tutte le regole e rilassati! Lasciati andare!”; di gran lunga più efficace è prendere la cosa in modo strumentale, affrontarla come un compito difficile da compiere, e trattarla da una falsa distanza disinteressata, persino scriverla come una sorta di piano strategico di battaglia. Allora, all’improvviso, ci si può ritrovare coinvolti, trasportati… La dimensione “reale” sta in questa radicale indecidibilità: seguire le regole può rovinare il fascino, ma può anche accrescerlo; concederci di più all’estasi può funzionare, ma può anche rendere la cosa ridicola. Il punto non è che l’atto sessuale è una sorta di cosa “in sé” kantiana al di là della rappresentazione, ma che è già sempre scissa dall’interno. Il “comico” è in un certo senso l’atto sessuale “in quanto tale”, “in sé”, in quanto non c’è un modo “giusto” per farlo, poiché il modo in cui lo facciamo è per definizione sempre un argomento da imparare, una serie di norme che imitiamo dagli altri.
La scissione tra atto sessuale e la sua rappresentazione influenza questo atto stesso – che è il motivo per cui è sempre possibile che questo atto, all’improvviso, appaia ridicolo anche a coloro che lo compiono. La prova definitiva di questa irrappresentabilità è fornita proprio dalla pornografia, che pretende di “mostrare tutto”; il prezzo che paga per questo tentativo è la relazione di “complementarietà” tra la narrazione e l’atto sessuale: la conformità tra narrazione cinematografica e l’esibizione diretta dell’atto sessuale è impossibile: se ne scegliamo una, perdiamo necessariamente l’altra.
Il paradosso ulteriore della pornografia è che questo genere, che si suppone rappresenti la più spontanea delle attività umane, è probabilmente anche il più codificato, nei più intimi dettagli: la faccia dell’attrice durante il rapporto, per esempio, tiene conto di quattro espressioni codificate: 1) l’indifferenza, segnalata da un ignaro e annoiato sguardo perso nel vuoto, dal chewingum, dallo sbadigliare… 2) l’atteggiamento “strumentale”, come se il soggetto fosse nel bel mezzo di un difficile compito che richiede massima concentrazione: gli occhi bassi, rivolti verso dove sta accadendo tutto, le labbra serrate a indicare uno sforzo di concentrazione… 3) lo sguardo provocatorio fisso negli occhi del partner maschile, il cui messaggio è: “Dammene ancora! È questo tutto quello che puoi fare?” 4) il rapimento estatico, con gli occhi socchiusi.
L’antagonismo più difficile da sopportare nella pornografia è che essa presenta l’unità degli opposti” nel modo più radicale: da una parte, la pornografia contiene la completa esternazione delle più intime esperienze di piacere (facendolo per soldi davanti alla telecamera); dall’altra, la pornografia è probabilmente, a causa della sua stessa “sfacciataggine”, il più utopico di tutti i generi: è “edenica” in quanto contiene la fragile e temporanea sospensione della barriera che separa l’intimo/privato dal pubblico. Per questa ragione, la posizione pornografica è indifendibile: non può durare a lungo, fa assegnamento su una sorta di magica sospensione delle norme di vergogna che costituiscono il nostro legame sociale – un universo utopico dove l’intimo può essere reso pubblico, dove la gente può fare sesso davanti a tutti.
L’immagine pornografica a livello base è quella di una donna che mostra i suoi genitali e provocatoriamente ci restituisce lo sguardo: ciò che mostra è in definitiva la sua mancanza, la sua “castrazione”, come il castrato Farinelli (nel film di Corbiau), che guarda “sfrontatamente” il pubblico che, vergognoso, evita il suo sguardo – è lo spettatore, non l’oggetto, a provare vergogna… Non incontriamo forse lo stesso fenomeno nella scena quotidiana di uno storpio o di uno sporco barbone che è divertito dal nostro disagio in sua presenza, e sfrontatamente ci osserva di rimando mentre noi ci vergogniamo ed evitiamo il suo sguardo?