La Stampa, 13 giugno 2016
Ci vuole un’amnistia
L’obbligatorietà dell’azione penale non è, di fatto, mai esistita. Certo, esiste come fine cui tendere. Come principio cui ispirarsi.
È bene che esista – diceva il grande avvocato Vittorio Chiusano – come «usbergo per il pubblico ministero». Perché anche il pubblico ministero pavido, di fronte a un potente che cerchi di impedire qualche indagine scomoda, potrà sempre rispondere: «Lo faccio perché la Legge me lo impone». Non sarà eroico. Ma, poiché non si può pretendere che tutti i magistrati siano eroi, la soluzione non è disprezzabile. Per questo il principio dell’obbligatorietà, sancito nell’articolo 112 della Costituzione, va mantenuto. Del resto, se pensiamo agli ultimi decenni della Repubblica e alle grandi inchieste in materia di stragi, servizi deviati e corruzione politica, si deve convenire che, senza il presidio dell’azione penale obbligatoria, cui è collegata l’indipendenza del pubblico ministero dal potere politico, noi avremmo un Paese con meno verità sulla propria storia, sui propri governanti, su se stesso.
Ciò però non ci consente di ignorare che, nella quotidianità, la pretesa di mettere in moto ogni denuncia e di portarla a giudizio, è una pura illusione. Un’illusione che, fino al 1992, si poteva far finta di coltivare grazie alle amnistie che, ogni tre o quattro anni, ripulivano gli armadi dei magistrati da pile di fascicoli per reati minori. La scelta dei reati da cancellare era, diremmo oggi, una «scelta di priorità» che aveva un sano pregio: di essere esercitata dal Legislatore. Nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere un’amnistia, sia necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. E così, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, non vi son più state amnistie. Ma non è certo migliorata la capacità del sistema giudiziario di far fronte alla valanga di fascicoli che – a causa di una litigiosità sempre crescente e di una «panpenalizzazione» che da decenni caratterizza il nostro sistema – ogni giorno si abbatte sulle Procure. Anzi, la situazione è peggiorata, per il cronico mancato rinnovo del personale amministrativo (basti pensare che l’ultimo concorso per cancellieri è del 1998!). Accade così che migliaia di fascicoli, già definiti dai pubblici ministeri e pronti per essere inviati al giudice, rimangano fermi anni, in attesa di una notifica.
La conseguenza di questa nuova situazione è l’ingolfamento del sistema, con l’allungamento impressionante dei tempi del processo e l’estinzione per prescrizione di decine di migliaia di reati: non solo quelli «bagatellari», che un tempo cadevano sotto il colpo di spugna di periodiche amnistie, ma anche delitti gravi, la cui cancellazione costituisce un’offesa inaccettabile per le vittime. Per attenuare questo disastro, i Procuratori della Repubblica sono stati costretti a esercitare, nella trattazione dei fascicoli, una sorta di «triage» giudiziario: delle «scelte di priorità» che tentavano di ancorarsi a parametri di gravità del fatto rintracciabili nei codici ma che, comunque, lasciavano molti scontenti ed esponevano i pubblici ministeri all’accusa di esercitare una «discrezionalità di fatto» non prevista dalla Legge.
A partire dallo scorso anno, questa situazione è in parte cambiata, grazie a due riforme. Infatti, nel gennaio 2016, sono stati depenalizzati vari reati minori (per alcuni dei quali è ora prevista una sanzione amministrativa). E prima ancora, una legge del marzo 2015, ha previsto la possibilità che, su richiesta del pubblico ministero, il giudice possa escludere la punibilità di alcuni fatti che, pur costituendo formalmente reato, siano «particolarmente tenui». Una tenuità che va verificata in concreto, tenendo conto della lievità del danno, delle modalità e della non abitualità della condotta, con una scelta di buon senso, da praticare caso per caso. Son due riforme importanti, destinate a produrre nuova efficienza: lo sfoltimento di tanti processi inutili consentirà ai magistrati di procedere più celermente per i reati più gravi.
Ma rimane un problema, che viene dal passato: è l’eredità del vecchio arretrato, che rischia di soffocare in culla anche le nuove riforme. Se i magistrati sono costretti a tentar di smaltire i vecchi fascicoli, che riguardano fatti minori, rischiano di far invecchiare anche i processi nuovi. Si trovano nella situazione di quella famiglia che, acquistando ogni giorno del pane fresco, si ostina a voler consumare il pane secco dei giorni precedenti. Per questo, un’amnistia che, con scelta oculata del Parlamento, cancelli i reati non gravi, commessi ormai quattro o cinque anni fa (e già vicini alla prescrizione) potrebbe fungere da volano e riavviare la macchina ingolfata. Senza questa sferzata, rischiamo di dover continuare a masticare il pane secco, vedendo rinsecchire quello fresco.