la Repubblica, 11 giugno 2016
Così l’America ha salutato Ali
Un lungo, lento e caldo addio. Pieno di orgoglio, con poche lacrime, senza strazio. Il più Grande non ha bisogno di pianti. Centomila persone sulla strada. Perché come è stato ricordato: «Se James Brown aveva detto: sono nero e fiero, Ali ha corretto la frase in “Sono nero e bello”. Lui ha amato i neri, quando i neri avevano difficoltà ad amare se stessi».
Così l’America ha seppellito il suo mito. Così la sua città Louisville, ha detto addio a chi ha dato splendore e dignità alla pelle nera. Il ragazzo nato Cassius Clay e diventato Muhammad Ali.
The Greatest.
Vedrete le foto dei ricchi e potenti che lo hanno celebrato. Bravi, eleganti, discreti. Anche simpatici: nel descriverne con ironia la sua ansia di libertà. Vedrete Lonnie, l’ultima moglie, che lo sposò a 29 anni (lui ne aveva 44), quella che per lui si convertì all’Islam, molto raffinata nel suo dolore, in abito nero, cappello largo e occhiali scuri, quattro giri di perle al collo. Più etnica, la seconda consorte, Kahalilah, la prima a dare figli ad Ali. Vedrete un po’ di Hollywood, un po’ di alta società, tanti atleti miliardari, attori. Billy Crystal, Arnold Schwarzenegger Don King, Sugar Ray Leonard, Kareem Abdul-Jabbar, Thomas Bach, presidente del Cio. Tutti nervosi, tutti imbarazzati, preoccupati di essere all’altezza: anche l’attore Will Smith, abituato alle scene pericolose, anche Mike Tyson, sobrio una volta tanto, nei modi e nei gesti, arrivato all’ultimo, per accompagnare il vecchio uomo malmesso che nel giorno del suo rilascio dal carcere (per stupro) era andato a Indianapolis a pregare con lui.
Non vedrete il presidente turco Erdogan, se n’è andato indispettito, perché non gli hanno permesso di mettere nella bara un pezzo di tessuto che ricopre la Kabba, alla Mecca. Anche re Abdullah di Giordania è stato sostituito come speaker. Vedrete riconoscenza, rispetto, ammirazione per un uomo che è diventato, ed è stato celebrato allo Yum Center, come il Mandela del ring, davanti a ventimila persone. Con un canto dell’imam Hamzah Abdul Malik e anche dal vivace e bizzarro rabbino Lerner¸ che si è scagliato contro i politici e ha aggiunto: «L’Islam non è il male, siamo tutti uguali, abbiamo tutti diritti, anche i palestinesi. Non criminilizzate la marijuana: quando la fumano i bianchi va tutto bene, quando lo fanno i neri finiscono in prigione. E dite tutto questo alla prossima presidente degli Stati Uniti che sarà una lei». Dio se sarebbe piaciuto ad Ali un’orazione così fuori da ogni conformismo. Canti buddisti e la bandiera con i cinque cerchi olimpici accanto a quella a stelle e strisce. E poi, al termine di una cerimonia lunga 3 ore, c è stato il discorso di Bill Clinton, che ha ricordato Atlanta: «Mi sono messo a piangere quando l’ho visto tremare, ma sapevo che ce l’avrebbe fatta. È stato capace di decidere la sua storia». E un messaggio dell’attuale comandante in capo dell’America, Barack Obama, primo nero alla Casa Bianca, che ha i guantoni di Ali appesi in ufficio: «Ali non è stato un sovversivo ma un radicale. Era e sarà l’America». E quello della figlia di Malcolm X, Attallah Shabazz. Tutti discorsi alti e giusti per il Campione della Gente. «I am Ali» c’era scritto sulle maglie di tanti cittadini e anche di chi lavorava in città. I bus al posto della destinazione avevano la scritta lampeggiante «Ali. The Greatest». Ma il vero funerale di Ali è stata quella lunga processione di 30 chilometri che ha attraversato la città, non in una via del pianto, ma in una via della compartecipazione allegra, quasi a dire, se oggi siamo qui, sullo stesso marciapiede, bianchi e neri, è anche grazie a te. Quindi perché piangere? Il corteo di 17 auto si è fermato una sola volta da programma, davanti al Muhammad Ali Center, per rispetto. Ma poi, davanti alla casa di Ali, nel west end di Louisville, ha dovuto rallentare: troppa folla, troppo gente assiepata. Tutti a gridare «Ali». È intervenuta la polizia con un cordone di agenti. Poi un ragazzo in tuta bianca si è messo ad agitare le braccia in alto, a urlare «Ali, Ali» e a correre con il carro funebre, e anche altri tre dall’altra parte, uno in calzoncini rossi, uno in jeans e un altro con un cappello da baseball verde che reggeva il cartello «Grazie per la memoria», si sono messi anche loro a correre. E il primo ha iniziato a bussare sui finestrini dov’era la bara di Ali, e gli altri pure, e l’autista ha dovuto abbassare i vetri e loro hanno finalmente potuto toccare la bara. A quel punto anche le altre macchine con i familiari hanno abbassato i vetri e le figlie e i parenti hanno sorriso e stretto mani.
Cosi Ali è tornato tra la sua gente. Per strada. Come per Bob Kennedy, il vero funerale non è stato né nella chiesa a St Patrick, né ad Arlington, ma lungo quei 328 km di ferrovia dove passò la sua bara in quel «funeral train» che attraversò per otto ore cinque stati della costa Est. Erano quasi gli stessi giorni di giugno. C’era l’America lungo i binari che era venuta per piangere Bobby, bimbi, pensionati, don- ne, famiglie in piedi sul tetto dei furgoncini, operai nelle tute sdrucite, contadini dai volti arrossati. Un’America vera, rurale, con la mano sul cuore, con i ragazzi di campagna scalzi che facevano il saluto militare, per il tramonto di una speranza. Così quella stessa America, cambiata, cresciuta, invecchiata, rinnovata, anche tanto ingrassata, ha aspettato Ali e il corteo funebre di limousine, ai lati delle strade, per il lungo addio. C’era silenzio all’inizio, quasi soggezione, per un uomo che ha sempre fatto tanto rumore nel mondo e che non ha mai risparmiato la voce, anche per conto degli altri, tanto alla fine da non averne più per sé. In tanti avevano una foto in mano, e non era di boxe, non era dei momenti trionfanti sul ring, ma Ali che visitava scuole, ospedali, vicinato, bambini disabili. Era l’uomo che diceva: «Abbiamo solo una vita. Presto sarà finita. Ciò che facciamo per Dio è tutto ciò che rimane». Ma era anche il papà, che come ha rivelato la figlia Hana, teneva in cassaforte la voce dei suoi bambini. Ali diceva sempre: «Dove ne trovate uno come me: capace di dire poesie, di sorprendere, di boxare, di essere bello e divertente come me?» Da nessuna parte, non più. Ma come ha urlato il rabbino (il migliore in campo): «Da oggi siamo tutti Ali». Ci tocca.