Corriere della Sera, 11 giugno 2016
La Rampling mette la sua vita e il suidicio di suo sorella in un libro
Il colonnello dell’esercito britannico Godfrey Rampling ogni anno cambiava reparto e città. «Abbiamo traslocato sette volte in 13 anni. In queste condizioni Sarah era la mia unica grande amica».
Dal momento in cui ha accettato l’idea di parlarne con lo scrittore ed editore Christophe Bataille, ci sono voluti 10 anni a Charlotte Rampling per scrivere del suicidio di Sarah, sorella più grande e «unica grande amica». Un segreto conservato per tutta una vita e rivelato adesso nella «autobiografia mancata» della grande attrice, Io, Charlotte Rampling, che esce il 16 giugno in Italia per 66thand2nd.
Il suo è un libro strano, racconta di sé, dei suoi genitori, di Sarah, ma non sembra un’autobiografia.
«Non volevo raccontare la mia vita, volevo evocarla. Ho sempre rifiutato scrittori, editori, contratti... Christophe mi ha cercata, ha accettato di incontrarmi per anni senza sapere se ne sarebbe uscito qualcosa. Con il suo aiuto ho voluto scrivere una specie di poema sulla mia vita».
Suo padre decise di liberarsi dei ricordi di famiglia mettendoli in un baule lasciato in mezzo alla strada. Decenni dopo, un rigattiere bussa alla porta della sua casa di Londra e le rivende le lettere e le foto che nutriranno il libro.
«Quegli oggetti sono elementi di una vita, più o meno importanti, dipende da quanti pensieri e sentimenti ci mettiamo sopra. A partire da quel ritrovamento non ho voluto ricostruire tutto, solo evocare qualche momento decisivo».
Come il collegio, da bambina, lontano da casa? Una cosa non abituale, almeno per le famiglie italiane.
«Per noi non fu così strano. È vero, è una cosa da inglesi. Non c’era la scuola vicina, il collegio era più pratico».
Fu duro da accettare?
«Le esperienze che si fanno da bambini non sono così pesanti, salvo nei casi estremi. Era una scelta dei genitori, noi bambini non avevamo voce in capitolo. Non ci sono metri di paragone, è così, e si accetta».
A nove anni vi siete trasferiti in Francia.
«Il primo Paese straniero dove sono andata. Rispetto all’Inghilterra tutto era diverso. L’architettura, il cibo, la lingua, le persone, il modo di vestirsi, di camminare. Le differenze tra i Paesi sono enormi, le notiamo forse di meno adesso ma all’epoca tutto aveva un sapore esotico».
Adesso si sente inglese o francese?
«Sono un miscuglio, è questa la mia forza. Un incrocio tra Inghilterra e Francia, due Paesi complementari. È una grande fortuna e ricchezza».
Nel libro ci sono immagini della Swinging London, la sua spensieratezza, la chiamavano «Charley». Poi, nel febbraio 1967, la tragedia. Sarah si uccide. Viveva in Argentina con Carlos, un ricco allevatore che aveva sposato tre anni prima, una settimana dopo averlo conosciuto.
«Arrivando a casa dei miei genitori mio padre apre la porta del giardino e mi dice a voce alta “Tua sorella è morta”, l’ho saputo così. “Vai da tua madre”. Fine della Swinging London. Ingresso nell’età adulta. Avevo vent’anni. Sarah era stata già seppellita, per noi non ci furono né corpo né funerali. Sono diventata quella che sono in seguito a quel dolore».
L’altra presenza forte è suo padre. Che alla morte di Sarah le dice di lasciare la casa di famiglia.
«Ma fu un atto di amore, per il mio bene. Sapeva che mia madre non si sarebbe mai ripresa, e voleva che io vivessi la mia vita. Anche qui c’è un lato molto inglese, non mi chiede di andare via, me lo permette. È stato un gesto di generosità, mi ha detto “mi occuperò io di tua madre”».
Perché non ha mai voluto andare in Argentina, sulla tomba di Sarah?
«Questo resta il mio segreto. Ci è andato mio figlio David, e da lì mi ha inviato un sms: “Sono seduto vicino a Sarah”, è il messaggio che mi è arrivato all’improvviso, nel cuore della notte. A quel punto potevo finire il libro».
Dopo la morte di Sarah negli anni lei è diventata una grande attrice, capace di sorprendere, dal film «Il portiere di notte» alle foto di Juergen Teller al Louvre, nuda, pochi anni fa. La trasgressione fa parte della sua personalità o è un gioco di attrice?
«Tutte e due le cose. Provocare qualcosa in nome dell’arte piace a noi artisti. O almeno piace a me».