La Stampa, 10 giugno 2016
Il prezzo delle maglie delle Nazionali lo pagano gli operai che le producono per 65 cents l’ora
All’Euro 2016 competono le squadre di calcio, ma anche le marche di abbigliamento sportivo. Che hanno pagato cifre importanti per vestire gli atleti (18 milioni all’anno per Puma con la Figc, quasi 43 per la Nike con les Bleus padroni di casa) e sperano di vendere un sacco di maglie a prezzi in linea con l’investimento (le Adidas ufficiali di Germania e Spagna costano 120 euro). Anche perché sponsorizzare una nazionale costa poco rispetto ai club: nel 2015 i dieci più popolari hanno incassato più di 400 milioni per il privilegio di fregiarsi del titolo di fornitore tecnico (senza dimenticare che per star come Messi o Pogba la fattura è sui 30 milioni).
Sicuramente una manna per i lavoratori che producono le maglie? Errore. Secondo la società specializzata Pour une information citoyenne, nei principali Paesi di produzione (che si chiamano Thailandia, Indonesia, Bangladesh e, per gli Azzurri, Georgia) la remunerazione media è di 65 centesimi all’ora. Molte fabbriche hanno livelli di sicurezza, contro gli incendi in particolare, simili al Rana Plaza di Dacca, tristemente celebre per la catastrofe che il 24 aprile 2013 fece 1134 morti. Con spese vive di produzione così esigue, non sorprende che i margini su una t-shirt siano consistenti.
Eppure i termini della questione sono più complicati. Anche se uno stipendio di poco più di 5 euro al giorno è chiaramente un’inezia, in Bangladesh è molto di più del salario minimo (30 euro). E in questo Paese, che negli ultimi 20 anni si è trasformato nell’Eldorado dell’industria del Ready Made Garment, sono stati creati 4 milioni di posti di lavoro, con esportazioni per più di 20 miliardi nel 2014-2015, più dell’80 per cento del totale nazionale. In più i giganti dell’abbigliamento sportivo sono coscienti dell’importanza dell’innovazione (ogni tanto ancor più che della responsible business conduct) e, in catene del valore sempre più complesse e articolate, scelgono i propri fornitori in base alla qualità del prodotto e non solo del semplice costo.
Come garantire allora il giusto equilibrio tra rispetto dei diritti fondamentali e prospettive di crescita e investimento? Una soluzione unicamente nazionale non può funzionare, perché appena un Paese dovesse applicare con maggiore impegno gli standard di protezione dei lavoratori ce ne sarebbe immediatamente un altro disposto a fare ponti d’oro all’industria. In Asia meridionale, per esempio, dopo che il Bangladesh ha iniziato a controllare meglio i siti di produzione per evitare un’altra catastrofe, Myanmar sta guadagnando terreno. Internazionalizzare le politiche è pertanto necessario, ma una soluzione unicamente governativa non sarebbe neanch’essa una soluzione. Che consiste nel dialogo tra Paesi, imprese e sindacati
Forse non a caso, dato che Adidas e Puma da lì vengono, è la Germania ad avere lavorato di più in questo senso. A Schloss Elmau nel 2015, il G7 ha sottolineato il costo sociale e ambientale di condizioni lavorative insicure e degradanti e riconosciuto che sono i Paesi più ricchi ed industrializzati a dover applicare gli standard, principi e impegni assunti in sede Ocse, Onu e Ilo. Innovativo è anche l’impegno a garantire il rispetto dell’imperativo del lavoro decente lungo tutta la catena del valore, se necessario con strumenti di due diligence volontaria. Quest’anno a Ise-Shima i giapponesi non hanno fatto cenno al tema: l’Italia, che è già in prima linea nell’applicare le Linee Guida dell’Ocse, potrà cogliere l’opportunità per portare avanti i suoi valori di capitalismo responsabile durante la presidenza 2017. E agli ospiti internazionali si potrà offrire una maglia della Nazionale.