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 2016  giugno 10 Venerdì calendario

Dalle feste selvagge ai malati di Alzheimer, passando per corse in pantaloncini, pacemaker e molte gaffes. La straordinaria avventura politica di Berlusconi

Basta politica, comunque. Basta stress, basta impicci, basta speranze, fatiche, paure, alleanze e successioni. E un diniego tutto sanitario, di «severo» grado cardiovascolare, mette dunque fine – che nel suo caso però non è mai la vera fine – alla straordinaria avventura politica di Silvio Berlusconi.
Consumatosi nei wild parties, nelle feste selvagge ad Arcore, a Palazzo Grazioli e a villa La Certosa, il suo ciclo di potere era già finito nell’Istituto “Sacra Famiglia” di Cesano Boscone. Più di qualsiasi narrazione orgiastica, più di qualsiasi burlesque o bunga bunga, il compimento di un’epoca è apparso evidente – e a suo modo anche glorioso e perfino misericordioso – in un video trafugato nel quale si vedeva l’uomo più ricco e potente d’Italia, l’Unto del Signore, e a sua volta Signore delle meraviglie, che intratteneva attorno a un pianoforte i malati di Alzheimer al suono di una mazurka.
In ogni caso: come rapidamente è cambiato, magari anche grazie a Berlusconi, il modo in cui i potenti dicono addio alla politica quando il cuore, la pompa della loro energia, non gli regge più.
Nella Prima Repubblica, costretto dai medici del San Gabriele a mollare il Viminale, il democristiano Gava trovò il modo di far sapere che le dimissioni gliele aveva chieste niente meno che «Nostro Signore». Passa un quarto di secolo e, da sacrale che era l’approccio, a decidere o ad accompagnare l’ex Cavaliere verso la conclusione della sua vita pubblica è il dottor Zangrillo, ormai da anni inseparabile presenza e sostegno, come altri medici del sovrano in passato disposto a avvalorarne la figura in quel teatro dell’immortalità che è – che era – il potere.
E però. Mamma Rosa non voleva che Silvio scendesse in campo; meno che meno Veronica; e neanche gli amici «buoni» (Letta e Confalonieri), mentre quelli «cattivi» (Dell’Utri e Previti) sì. Nessuno comunque l’avrebbe fermato, e infatti sono stati venti e più anni di desolanti fuochi d’artificio e gioiose tenebre, sia per lui che per gli italiani.
Che cosa sia rimasto di queste caotiche e contraddittorie vicissitudini, dalla videocassetta inaugurale alla coda terminale di Dudù, è davvero troppo presto per dire. Ma anche a costo di cadere nell’effettaccio, non c’è oggi uomo politico cui si adattino meglio che a Berlusconi quei celebri versi che diverse generazioni di italiani hanno mandato a mente con un beffardo fastidio che oggi, guarda guarda, torna utile: «Tutto ei provò: la gloria/ maggior dopo il periglio,/ la fuga e la vittoria,/ la reggia e il triste esiglio;/ due volte nella polvere/ due volte sull’altare» – che poi, a voler essere pignoli, rispetto a Napoleone, per tre volte il Banana è caduto e si è rialzato, sempre spolverandosi i pantaloni, ma pazienza.
Va da sé che questo incessante andirivieni gli ha fruttato rinascite impreviste, ma pure imposto traguardi incredibili e comportato costi pazzeschi, a cominciare dalla vita nuda che egli ha deciso lucidamente di mettere in scena, giorno dopo giorno, telegiornale dopo telegiornale, dinanzi agli sguardi dei suoi adoratori e dei suoi nemici.
Come dietro a una spaventosa e spesso infuocata lente di ingrandimento, nulla di sé e del suo mondo è andato perso, insieme a vittorie e sconfitte proiettandosi e poi gorgogliando nell’immaginario di un intero paese attraverso corse in candida maglietta e pantaloncini, ore di sonno e di aereo conteggiate, diete, tumori superati, tagliandi e trapianti, pacemaker, cerotti, mentine anti fiatella, graffi e lividi esibiti a riprova di un amore così intenso da farsi violento.
I sanitari l’hanno seguito come e più dei suoi dirigenti. Dentisti, massaggiatori, preparatori atletici, durante il terremoto dell’Aquila una medichessa si è sentita rivolgere l’invito presidenziale a farsi, appunto, rianimare.
A un certo punto il dottor Scapagnini gli ha auspicato scientificamente 120 anni di vita, e sull’età anagrafica si è sovrapposta una specie di fabula che lui ha sempre gradito come un omaggio, o come una impossibile verità. Era del re il Re. E il re possiede due corpi, come minimo. Dal predellino alla salvezza il passo era breve. Ogni tanto però si scocciava, lo facevano arrabbiare, s’imbestialiva, e allora addio, addio, esplodeva: «Ho la barca a vela più bella del mondo, ho fatto rifare tutti gli interni, mi hanno mandato le foto, io me ne vado, arrangiatevi voi».
Una volta disse pure, al telefono, forse sapendo che lo stavano intercettando: «Questo paese di merda». Non lo meritava. Lui era un dono. E non lo sapevano. Voleva il 51 per cento, almeno. Il fatto che non lo avesse raggiunto era colpa grave degli elettori.
Fece anche una canzone con Apicella. Diceva «andiamo via, andiamo via». Il Bagaglino ci fece anche uno spettacolo, il «Silvio scomparso», Emilio Fede era disperato. Ma poi non partiva mai con la sua barca. E lì restava nei suoi palazzi, nelle sue ville. Dove continuava a ospitare tutti, quindi anche la gente più strana.
Negli ultimi tempi, sempre più deluso, sempre più seccato, aveva messo in campo una opzione alternativa alla barca. Era di natura filantropica: sarebbe andato in giro per il mondo a costruire ospedali per i bambini. Curioso intendimento per un magnate. Suonava aveltroniano. Ma con lui, con Papi o con il Caimano, tutto è stato sempre abbastanza possibile.
Tra un malore e l’altro si divertiva, si affliggeva, mai tirava a campare. Una volta svenne e quando si svegliò vide un medico con la barba che parve Bin Laden. Disse: «Oddio, sto già all’altro mondo». Ma non era vero.