Corriere della Sera, 10 giugno 2016
La nostra Costituzione parla troppo di economia
A una veloce ma attenta lettura della Carta costituzionale, si osserva che non c’è alcun riferimento a questi tre termini: capitalismo, economia di mercato, liberismo. Eppure, la vita dei cittadini è plasmata non dai diritti politici e civili, ma dalle variabili economiche, che sono regolate da questo sistema e ideologia. La vecchia e classica questione del rapporto tra destra e sinistra, che oggi appare più attuale che mai, viene «occultata» dai principi e valori costituzionali, nella prima parte della Costituzione, con i loro generici riferimenti alla libertà, al lavoro e alla solidarietà. Ma la grande contraddizione non può essere sottaciuta, e appare in tutta la sua evidenza e urgenza: una Carta costituzionale non può non enunciare il modello di sviluppo che una popolazione intende adottare.
Giulio Portolan
Pordenone
Caro Portolan,
In realtà la Costituzione italiana dedica ai rapporti economici più articoli di quanti, a mio avviso, sarebbero stati necessari. L’art. 36 fissa i criteri a cui il datore di lavoro dovrebbe ispirarsi per decidere la retribuzione dei suoi dipendenti. L’art. 38 dichiara che il cittadino inabile ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, se è sprovvisto dei mezzi necessari. L’art. 41 dice che la iniziativa economica privata è libera, ma deve essere utile socialmente. L’art. 42 ribadisce che la proprietà è «riconosciuta e garantita da un legge che ne determini i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale». L’art. 43 dichiara che la legge «può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese». L’art. 45 «riconosce la funzione sociale della cooperazione, a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata». L’art. 46 «riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
Nonostante qualche attenuazione e qualche intenzionale vaghezza, la Carta costituzionale italiana lascia intravedere una forte diffidenza per il capitalismo. Non è sorprendente. È stata scritta al culmine di un’epoca in cui la parola d’ordine, per gli autori di costituzioni, era nelle democrazie occidentali quella di trovare la via di mezzo tra il capitalismo e il comunismo. È nata quando i punti di riferimento, confessati o inconfessati, erano il piano Beveridge del laburismo britannico, il New Deal di Roosevelt, il corporativismo fascista, l’economia sociale di mercato e il «codice di Camaldoli», scritto da un gruppo di intellettuali cattolici nel luglio del 1943.
Questo invecchiamento delle Costituzioni, caro Portolan, accade quando a esse viene attribuito il compito di decidere le linee economiche e sociali di un Paese: una materia in cui i criteri cambiano spesso da una generazione all’altra. Le migliori Carte costituzionali sono quelle in cui gli autori si limitano a fissare le regole fondamentali per il buon funzionamento dello Stato: elezioni, formazione dei governi, durata delle legislature, competenze dei singoli poteri, diritti fondamentali. Le Costituzioni che dicono troppo sono quelle che invecchiano più rapidamente.