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 2016  giugno 10 Venerdì calendario

Muhammad Ali raccontato da Mario Sconcerti

Era il 1960, un inizio di autunno molto dolce. Mio padre tornò dalle Olimpiadi di Roma con una fotografia. C’erano due uomini e un ragazzo che sorridevano tenendosi le mani ognuno sulla schiena dell’altro. I due uomini erano giovani, sotto i quarant’anni, il terzo, nel mezzo, era un ragazzo nero. Ero ancora un bambino, conoscevo a stento il mestiere di mio padre, procuratore di boxe. Se tuo padre fa il fabbro o il macellaio hai le idee chiare. Se fa il procuratore di boxe capisci solo di palestre e di odore di canfora, di ragazzi che respirano tirando su col naso. Mio padre mi disse che il ragazzo nero sarebbe diventato il più grande pugile del mondo. Lo guardai meglio, non mi sembrò un conquistatore. Era alto e magro, aveva un gran sorriso. Ma era giovane, per me i conquistatori erano Attila e Alessandro, questo non aveva nemmeno un esercito. «Sì, disse mio padre, ma fa una boxe unica. E ha il maestro migliore, l’altro uomo della foto insieme a me». Il ragazzo era Cassius Clay, l’uomo era Angelo Dundee, l’altra faccia dell’anima di Clay. Per catturarmi meglio mio padre mi chiese se ricordavo Wilma Rudolph, la Venere nera, l’atleta più bella delle Olimpiadi. Quella la ricordavo bene. «È la sua ragazza». La mia ammirazione si allargò.
La mia piccola vita nei pressi di Ali cominciò lì ed è proseguita sempre girando intorno ad Angelo Dundee. Era figlio di due emigranti calabresi, aveva sette tra fratelli e sorelle. Vero nome Miranda, storpiato in Mirena dall’ufficio immigrati, trasformato da lui in un cognome scozzese perché si vergognava della sua emarginazione, del suo americano alla cosentina. Frequentava quasi solo ragazzi neri perché parlavano in modo anche meno comprensibile del suo. Crebbe tra le risse di quartiere, non aveva fisico, ma aveva testa. Le bande si picchiavano, vinceva chi tirava il primo colpo. Lui insegnò a doppiare i pugni. Due per volta, uno-due e con il terzo lo stendi, vinci davvero. Divenne un maestro quasi involontariamente. E come prima cosa si mise a caccia di Cassius Clay, una corte lenta, intelligente, insistente. Clay allora non aveva le idee chiare, l’altro gli diceva sei il più grande, non buttarti via. Lo seguì anche alle Olimpiadi, fu lì che lo convinse a diventare professionista con lui e con lui rimase anche quando i Fratelli musulmani non volevano bianchi intorno. Dundee era piccolo, come mio padre, sensato come lui, con un’idea del marketing del pugilato che in Italia era sconosciuta. Si trovavano bene insieme, si sono aiutati per tutta la vita. Per mio padre Dundee era l’America che non avrebbe mai avuto.
Quando Clay diventò Ali e uscì di prigione, una decina di anni dopo, dai 92-93 chili che pesava prima, era arrivato vicino ai 110. La diversità di Ali era però sempre stata la sua agilità. Aveva la potenza del peso massimo e la rapidità del peso medio. Quindici chili in più aumentavano la forza del pugno ma gli toglievano la sua differenza. Per restituirgli agilità e contatto con l’avversario, fu organizzata una grande tournée in Europa. Ali avrebbe incontrato i migliori pesi massimi del continente. All’Allenstadium di Zurigo, un motovelodromo al chiuso con spazio nel mezzo per ventimila persone, incontrò Jürgen Blin, campione europeo. Il contratto prevedeva che Ali si sarebbe allenato a Zurigo in una palestra allestita per lui in una sala conferenze dell’Hotel Atlantis, uno dei più lussuosi della città. Non ricordo se fossero i giorni di Pasqua o di Natale, ma quando l’attività di mio padre cadeva in quei giorni la regola era che la famiglia restasse unita e lo seguisse. Così mi ritrovai nell’albergo di Ali e del suo clan infinito. Stava un po’ di tavoli più in là, mi sembrava parlasse sempre lui, aveva camicie colorate e muoveva molto le mani. Poi improvvisamente cadeva in un lungo silenzio, ma senza ascoltare gli altri. Ogni tanto mi alzavo dal mio tavolo e mi avvicinavo al suo con la scusa di camminare un po’. La cosa che mi colpiva è che aveva sempre qualcosa nel piatto, ma sempre piccole cose, porzioni minime. Capì che era la dieta. La fame è una delle compagne più fedeli di un pugile. Prima di ogni match si è pesati, se non si entra nei limiti l’incontro salta. Ho visto pugili la sera dopo il peso, alla vigilia dell’incontro, finalmente liberi di mangiare, riempirsi di tutto poi mettersi un dito in gola, vomitare per poter ricominciare.
Ali si allenava davanti al pubblico ogni pomeriggio. Nel pugilato ci si allena scandendo il tempo dell’incontro, tre minuti per ogni fase, tre di corda, sugli attrezzi, sull’uomo, poi un gong. Un minuto di riposo e altri tre minuti. Ali faceva quindici riprese, un’ora in tutto. Alla fine di ogni ripresa si apriva il giubbino di plastica che aveva sulla pelle e faceva cadere catinelle di sudore. Era impressionante. Su un palco da solo a lavorare, la gente in platea e galleria a guardarlo impettita, affascinata, lui e il suo sudore, le sue smorfie da attore, le occhiate che sembravano giudicare, e non era un bel giudizio. Alla fine dell’allenamento Ali, sempre in silenzio, prendeva un lungo legno sottile, nei miei ricordi era una specie di canna da pesca con un cappuccio in testa, di quelli con cui si spendono in chiesa le candele lontane. Allora la gente si agitava, si schiariva la voce, era chiaro che stava per succedere qualcosa ma non capivo cosa. Poi in galleria la prima fila si alzava e veniva avanti verso il balcone. Ali faceva un gesto con la mano come per dare il via e il primo della fila come si metteva da solo a gridare: «Muhammad, you are the greatest». Ali muoveva la testa, un idolo incontrollabile, e faceva segno al signore che veniva dopo. Signori tutti uguali, borghesi di Zurigo, orgogliosi di se stessi, completamente dimenticati davanti a lui. E anche il secondo gridava la stessa cosa. Via via così per tutta la fila, una ventina di persone. «Muhammad, you are the greatest!». Poi veniva il silenzio, un lungo, incomprensibile silenzio, il segno che Ali stava pensando. E improvvisamente la luce. Con il suo lungo spegni-candele, dal profondo del suo palco in basso, Ali indicava cinque persone. Erano state per lui quelle che avevano gridato meglio la sua lode, con più passione, più amore. Uno spettacolo automatico e gelido che metteva i brividi, ma che cadeva profondamente in quella realtà. Lui ci credeva, la gente ci credeva. I cinque prescelti avevano diritto a un biglietto bordo-ring per l’incontro con Blin.
Quando venne la serata si entrava al velodromo attraverso un corridoio pieno di oggetti con su stampato Ali. Piatti, orologi, portacenere, accendisigari, asciugamani, un repertorio di marketing grossolano e d’avanguardia. Alla cassa c’era la fila, come in un carnevale che prende alla sprovvista. Quando sul ring comparve Jurgen Blin, bellissimo, biondo e bianco come una candela, i ventimila svizzeri ebbero una scossa. Ali era il fascino, ma il tedesco Blin era la loro realtà. Ci fu un’ovazione incontenibile, il gioco era finito. Ma era strano come tutto intorno a Clay fosse ancora silenzio, come quelle sue assenze improvvise durante le cene. Il suo vero modo di apparire era mistico, senza rumore. Mentre Blin con la pelle già rossa di sudore sgambettava sul ring in attesa, le luci si spensero all’improvviso come in un guasto. Ci fu un grande oh di sorpresa, quasi di paura. Poi un raggio di luce puntò diritto verso l’entrata laterale. Ancora silenzio, un’attesa impossibile, una sospensione del tempo. Nel buio fitto, nell’unica luce accesa, di colpo si spalancò un accappatoio di raso bianco col cappuccio rialzato. Si muoveva come fosse solo, dentro l’accappatoio sembrava non esserci niente. Ma danzava, si muoveva, era dolce e aggressivo. Era Ali coperto di negritudine e luce.
Blin combattè da eroe per cinque round, il tempo che Ali doveva concedere alla gente. Poi cominciò a doppiare i colpi, ad inseguirli. Il volto del tedesco diventò una maschera di sangue, il combattimento un’ingiustizia a cielo aperto. Dal fondo si alzò la musica dell’Eroica di Beethoven, Ali andava perfettamente a tempo, Blin in quel tempo crollava, era uno spettacolo fantastico e crudele, troppo colto per essere stato pensato. C’era l’inevitabilità della forza, la differenza della bellezza. E il dramma dei più deboli. Di tutti gli altri che non erano Ali.
La notte Dundee mi regalò uno di quei brutti piatti con dedica e autografo di Ali. È ancora sulla mia scrivania, pieno di cicche ma è sempre lì.