la Repubblica, 10 giugno 2016
«Mi ammazzerei per vincere» dice Pogba. L’ansia della Francia che non può sbagliare
Allosanfàn e anche di più, molto di più stavolta. Con quel boato di novembre nelle orecchie, con quello sgomento negli occhi: perché accadde proprio qui, in questo stadio, e non ha mai smesso di accadere. Con la paura e l’orgoglio, sapendo che una squadra a volte non è solo una nazionale ma una nazione. Con la forza e la necessità: di essere i migliori, di fare qualcosa a nome di tutti. «È assai più di un campionato Europeo di calcio e lo sappiamo benissimo». Didier Deschamps è smagrito, invecchiato. Gira gli occhi e cerca qualcosa.
Nella sera tiepida di Saint Denis comincia una Coppa che dice altro, che racconta di più. I giocatori francesi si sentono investiti di una missione: vincere, come i loro zii del ’98 (Zidane è ancora su tutti i manifesti, appena un po’ più di Pogba) e i loro nonni dell’84 (no, Platini non verrà) e zittire quell’angoscia che gli sbatte dentro e bisogna soffocare. E allora è meglio parlare di calcio, cercare nel pallone l’anestesia. Cominciando dal polpo Paul. «Mi ammazzerei pur di alzare il trofeo il 10 luglio». A volte i ragazzi non sanno quello che dicono e hanno bisogno di non saperlo, per dirlo e crederci. Dà forza, tutto questo. «Non m’interessa dove giocherò l’anno prossimo, ora penso solo all’Europeo e alle vacanze». Forse giocherà nella Juve, forse nel Real Madrid, forse nel Manchester United, forse nel Barcellona. «Voglio diventare una leggenda e ci riuscirò, voglio che fra trent’anni la gente guardi i miei video su Youtube come fa oggi con Maradona e Pelé».
Beata, complicata gioventù di una generazione di fenomeni, è la Francia del polpo e di Griezmann, Giroud, Martial, Coman e Kantè che corre a Leicester (per poco ancora) e non smette mai. «Siamo forti, siamo consapevoli e siamo qui per vincere, non ci interessa niente altro che questo» dice il portiere Lloris che è anche il capitano, grosse mani pronte per 12 chili d’argento puro, e servirà dell’argento vivo per portarlo a casa.
Tutto è solenne, grandioso e fragile. In teoria lo è anche l’avversario, la Romania di Iordanescu che un po’ provoca: «La Francia è molto forte, però vulnerabile in difesa». Ma può, il nobile sangue balcanico che spesso lascia tracce nel calcio, fermare il destino della nazionale/ nazione? «Li rispettiamo», risponde Deschamps. «Sanno ripartire in velocità, non soltanto difendere e hanno tecnica». E la tua Francia, Dedé, cos’ha? «Un potenziale offensivo molto interessante, un buon equilibrio complessivo e un solido blocco in difesa. Sì, in teoria abbiamo tutto come Spagna e Germania, anche se con la teoria non ho mai vinto neanche una partita». Se almeno non si fossero rotti Diarra e Mathieu, Varane e Zouma, Debuchy e Laporte, a volte questa Francia è così malandata che sembra il centrocampo dell’Italia.
Didier, l’antico polmone della Juve di Zizou, si è seduto al tavolo della conferenza stampa con un mazzo di parole-chiave. Le ripete a oltranza, ben cadenzate, e queste parole sono fiducia, generosità, lucidità, calma. «Sappiamo l’importanza della serata, la gara d’esordio è sempre tutto e niente, però dobbiamo anche astrarci, concentrati nella nostra tranquillità». Come se fosse facile tra scudi anti drone e cecchini sui tetti, scioperi selvaggi e alluvioni, infortuni a vagonate e arsenico. Difatti non manca la domanda finale su Karim Benzema: perché non c’è? Dedé alza lo sguardo e sbuffa, le pallidissime guance s’imporporano e si nota ancora di più quanto siano scavate. «Io non parlo di chi non è qui, non ho altro da dire e non credo vi serva la traduzione». Sorrisi, bisbigli. Perché tutto sembra nulla rispetto all’immane compito dei ragazzi vestiti di blu, ogni argomento come una distrazione, un parlare d’altro per non dire l’unica cosa che si dovrebbe, quel tarlo che rosicchia i pensieri. Qui, dove sette mesi fa potevano morire centinaia di persone, uccise in una mancata strage da stadio che forse è ancora una possibile architettura del male, l’obiettivo di qualche folle. Dedé non vuole sentirlo dire, forse perché nulla gli gira in testa di più. «Penso da due anni a questo giorno e niente ce lo porterà via».