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 2016  giugno 09 Giovedì calendario

«Crimini contro l’umanità». L’Eritrea nel mirino dell’Onu

Una prigione a cielo aperto in cui crimini contro l’umanità restano regolarmente impuniti. È il drammatico ritratto che emerge dal rapporto conclusivo della Commissione d’inchiesta Onu sull’Eritrea. Un’immagine cruda, quella che queste pagine ci restituiscono del piccolo Paese africano, definito «uno Stato autoritario», che «non ha un sistema giudiziario indipendente, non ha Parlamento, né istituzioni democratiche». Soprattutto, però, uno Stato in cui «crimini contro l’umanità sono stati commessi in maniera diffusa e sistematica nelle strutture detentive, nei campi di addestramento militari e in altre località sparse nel Paese negli ultimi 25 anni». Il tutto coperto da un diffuso «clima di impunità».
I responsabili dei crimini vengono individuati nei leader del partito di governo e nei funzionari militari. Il testo afferma che l’Ufficio di sicurezza nazionale «è responsabile» per molti casi di arresti domiciliari, sparizioni forzate e torture. Tra le 300 e le 400mila persone, inoltre, «sono state rese schiave» dal cosiddetto «servizio nazionale» a tempo indeterminato. Per questo la Commissione ha raccomandato al Consiglio di sicurezza dell’Onu di deferire la situazione dell’Eritrea al procuratore della Corte penale internazionale e ha chiesto agli «Stati membri dell’Onu di rispettare i loro obblighi di perseguire o estradare gli individui sospettati di crimini internazionali e che sono presenti sul loro territorio».
L’Asmara ha bollato come false le conclusioni del rapporto, definendolo un attacco «non solo contro l’Eritrea, ma anche contro l’Africa e i Paesi in via di sviluppo». Per il governo eritreo si tratta insomma di un’operazione politica per gettare discredito sul Paese. Nel giugno del 2014 i vescovi cattolici eritrei avevano pubblicato una coraggiosa lettera pastorale in cui denunciavano la perdita di intere generazioni, costrette alla fuga da un regime oppressivo. Sono gli stessi giovani che a migliaia tentano la traversata del Mediterraneo. Prigionieri in casa loro, gli eritrei. La carta d’identità non basta nemmeno per spostarsi all’interno del Paese: ovunque serve un permesso da mostrare ai posti di blocco: il regime vuole sapere dove si trova ogni cittadino. Lo stipendio medio, per chi si aggiudica un posto nell’intricata e asfissiante burocrazia di Stato, è di 30 dollari al mese. Agli altri spesso non resta che tentare di cavare qualcosa da terreni sempre più improduttivi. I più fortunati sopravvivono grazie alle rimesse dei parenti all’estero. Il più fortunato di tutti è lo Stato, che dalle tasse su quelle rimesse trae linfa per i suoi investimenti in armi (oltre il 20% del Pil).
Una cortina di ferro ha colpito anche la libertà religiosa: in uno Stato in cui oltre il 50% della popolazione è cristiana sono ammesse solo le quattro religioni ufficialmente riconosciute e cioè quella eritrea ortodossa, quella cattolica, quella luterana e l’islam sunnita. Tutte le altre confessioni sono fuori legge e molti loro fedeli si trovano di fatto in carcere per questo motivo. Anche le Chiese principali – comunque – devono fare i conti con i diktat di Afewerki, padrepadrone della «Nordcorea africana».