il Giornale, 9 giugno 2016
Picasso, Salinger, Kafka, Hemingway: storie di geni ostaggi delle loro ossessioni
La lettura è la forma embrionale della scrittura. Lo sa bene chi di lettura campa. E come ci campa? Scrivendone. Il recensore e il critico, quando parlano di un libro parlano prima (in forma embrionale) della lettura di quel libro, e poi del corpo del libro, delle sue ossa, dei suoi muscoli, dei suoi nervi, dei suoi organi. La lettura è il seme che il lettore affida all’autore affinché lo trasformi in rosa, in quercia, in uomo, in donna. Gian Paolo Serino è uno del ramo, campa cioè abitualmente di lettura, e le sue letture diventano, con piena Satisfiction di altri lettori, scrittura, anche su questo giornale. Ma stavolta ha compiuto l’esperimento di coltivare da sé una manciata di semi. E gli otto racconti, le otto persone che ha (ri)generato in laboratorio compongono il romanzo delle sue letture.
Quando cadono le stelle (Baldini&Castoldi, pagg. 220, euro 15) è la storia di otto ossessioni, di otto demoni che hanno colonizzato i cuori e le menti di otto persone che qui diventano personaggi. C’è un pittore dall’ego smisurato e posseduto dal proprio genio. C’è un attore bello e dannato posseduto dall’assenza di sua madre che crede morta. Ci sono cinque scrittori ostaggi, rispettivamente, di un amore, del proprio alter ego, dell’alcol, dell’omosessualità repressa e della scrittura. C’è un politico assorbito a tal punto dalla politica da sacrificarle una figlia. Tutti alla ricerca spasmodica della libertà, e tutti da essa schiavizzati.
Certo, ognuno la vive in modo differente, la propria ossessione. I caratteri più forti la cavalcano come fosse un destriero imbizzarrito, stringono le redini e danno di speroni, nell’illusione di dominarla. Prendete Pablo Picasso: si ritiene il più grande artista mai esistito, e quando mette la firma su qualcosa, fosse anche la schiena di una bambina a Juan-les-Pins, in Costa Azzurra, sa che lì resterà per sempre, segno indelebile del suo passaggio, un dono per l’umanità. E Jerome David Salinger, alle prese con quella scalpitante puledra di Oona O’Neill, quando capisce che le carezze sulla criniera corvina, le passeggiate in Central Park a guardare le papere newyorkesi, le lettere sdolcinate scritte dal fronte non bastano più perché la cavallina ha scelto un padrone maturo che l’ha introdotta nella mandria del cinema, «quel vecchio figlio di puttana» di Charlie Chaplin, trasforma la ritirata in una vittoria. Forte del «più grande romanzo americano», se si salverà dalla guerra che gli fa paura ma anche lo eccita, vivrà «lontano dal mondo, lontano da tutti, e tutti mi adoreranno».
Invece, il povero Cary Grant, benedetto da una bellezza e da un fascino non ancora sfigurati dai troppi drink, deve ingollare l’amaro calice della staffa quando apprende che sua mamma, perduta quando aveva nove anni, è viva ma sta peggio che morta, vittima di un marito egoista che l’ha fatta internare in una clinica per malati di mente, e il viaggio verso l’Inghilterra al termine del quale si ricongiunge a lei è l’espiazione di peccati altrui. A Edgar Allan Poe il bere ha invece bruciato le capacità di intendere e di volere, e l’ultimo atto della sua esistenza drogata si svolge a Baltimora nel teatro, altrettanto drogato, della democrazia: spremuto come un limone dagli agenti elettorali che gli strappano voti in cambio di bottiglie, al culmine del delirio non può far altro che urlare i versi di una sua poesia, prima di rendere l’anima al Diavolo. La sobrietà austroungarica di Franz Kafka, invece, non basta a schiacciare lo scarafaggio Gregor Samsa che allo scrittore parla come un fratello maggiore: un fratello degenere, però, figlio dei fantasmi notturni della Praga onirica. E se Ernest Hemingway confessa, poco prima di suicidarsi con un colpo in bocca, di aver sempre combattuto con un altro fantasma, quello dell’Ernestina verso cui lo spingeva una madre confusa e confusionaria, l’unico vivente nella galleria di Quando cadono le stelle, il bestsellerista in crisi di ispirazione Stephen King, viene addirittura sconfitto da una libraia australiana, la quale gli preferisce un’autrice di paccottiglia sentimentale per donne insoddisfatte.
I comizi d’amore di Serino dedicati all’arte di leggere e al mestiere di scrivere si concludono con il politico, Joseph P. Kennedy, capostipite di una famiglia che ha scontato un destino maledetto. La maledizione risale al trattamento riservato alla sua terzogenita, Rosemary. Troppo discola, disinvolta e sessualmente attiva è, secondo lui, quella bella ragazza, per non attirare l’attenzione dei media e mandare quindi in vacca non una, ma tre carriere al servizio degli Stati Uniti d’America. Così decide di farla lobotomizzare per «aggiustarne» il carattere esuberante. Trasformandola in una larva umana, lo scheletro nell’armadio dei Kennedy.
E dopo queste otto tappe di buone letture diventate buona scrittura, la scena finale chiama a raccolta, simbolicamente in un museo, il MoMA di New York, gli otto personaggi e chi ha condiviso i loro demoni. Quadri viventi che escono dalle cornici. O, se preferite, semi che hanno dato buoni frutti.