Corriere della Sera, 9 giugno 2016
Carlo Verdone e il ballottaggio di Roma: «Cari Raggi e Giachetti, è l’ultima campana»
Non riesce a sorridere: «Dalla mia terrazza vedo Roma dall’alto. I monumenti, le piazze, i mercati. Vedo una città antica, accogliente. Con l’anima da vecchia matrona, saggia, sonnacchiosa, cattolicona. Una città che trova nel suo passato la ragione per sopravvivere. Ma anche una città stravolta, ammalata, confusa. E le chiedo scusa». La malinconia di Carlo Verdone viaggia su Facebook e ha il passo di una poesia. La città del Giubileo, dei contrasti che si avvia, scarrucolando, al ballottaggio Raggi-Giachetti, Cinquestelle contro Pd. Il re della nuova commedia all’italiana, l’ex ragazzo de La casa sopra i portici sul Lungotevere dei Vallati, non usa mezzi termini: «Roma è il biglietto da visita del Paese. Non possiamo lasciarla morire così. Bisogna rifondarla, tagliare le metastasi che la uccidono. Bisogna farla rivivere».
Politicamente che cosa vede, Carlo?
«Vedo la scomparsa dei partiti tradizionali. Vedo un elettorato che ha intravisto nei Cinquestelle una ventata d’aria nuova. Ma adesso serve gente competente. Ho amici di destra e di sinistra: ero convinto che stessero con Meloni o Giachetti. Invece, hanno scelto il nuovo».
Con quali motivazioni?
«Dire basta a un sistema che non funziona. Pesano gli scandali, la corruzione, le promesse non mantenute, la vita difficile. Una città così bella non merita questo. Ma Roma ha bisogno, prima di tutto, del senso civico dei romani. Auguro di vincere sia a Raggi sia a Giachetti. Ma devono sapere che questa è l’ultima campana».
È più la Roma di Paolo Sorrentino, de «La grande bellezza», o di «Suburra»?
«È la Roma di Sorrentino, metafisica, ben fotografata, con i pullman, le udienze del Papa, i torpedoni, i tubi rotti. E la Roma della corruzione. Mal governata, abbandonata, tradita. Nessuno ha pensato al bene comune. Roma invece va amata, protetta».
Da dove può partire il rilancio?
«Dalle periferie, dove manca tutto. Dalle strade consolari, dai quartieri ghetto. Nelle periferie non c’è cultura, servizi zero, la vita è un inferno: e i ragazzi possono sbandare. La colpa è anche dei romani. Ho visto code all’alba per l’iPhone. Gente che poi va in piazza a far cagnara con i centri sociali. Ma sull’urbanistica ci vuole molta attenzione».
Cioè?
«Il disastro nasce a metà degli anni Sessanta, quando l’affare finì in mano ai palazzinari legati a certa Dc. Un’accozzaglia di alveari, dal Corviale a Tor Bella Monaca, dove si vive gomito a gomito e tutto è disumano. Chi guiderà la città si circondi di persone competenti, autorevoli, appassionate di politica. Un conto è la politica, un conto è la poltrona».
Un quadro desolante.
«Aggravato da un mostro che si chiama burocrazia. Quattro anni fa stavo per comprare casa in Germania, a Berlino, un investimento per i miei figli che poi saltò. Sa quante firme occorrevano? Solo sei, agenzia compresa. In Italia quante ne devi fare?».
Quando pensa alla sua Roma che immagini e che volti le vengono in mente?
«Sono nato nel novembre del 1950, ho ricordi che arrivano al ’56-’57. Ricordo una città in bianco e nero dove c’erano dignità e rispetto, molto poetica. Ricordo Trastevere con la sua caciara. I graffiti erano al massimo una scritta contro Roma o Lazio. Ho visto con i miei occhi il duro lavoro di pulizia fatto da brava gente di quartiere a Monteverde Vecchio rovinato in pochi giorni dagli spray dei vandali».
Che dice del modello Milano?
«A Milano ho girato nel 1991 Maledetto il giorno che t’ho incontrato. Torno spesso, ultimamente la vedo in forma. Assomiglia a Berlino. I tassisti sacramentano sul traffico. Ma io ogni volta dico loro: e lo chiami traffico, questo? Vieni a Roma che te fai ‘na cultura».
Di positivo che cosa resta?
«La città è generosa. Gli episodi di solidarietà non mancano. Penso all’auditorium appena nato al liceo Majorana di Guidonia, è intitolato a mio padre, lo storico del cinema Mario Verdone: 260 posti, gestito dagli studenti. Il cinema è conoscenza. Non è bello?».
Tre nomi: Roberto Rossellini, Alberto Sordi, Sergio Leone. Che cosa mi risponde?
«Appartengono tutti alla “mia” Roma. Rossellini era il deus ex machina del Centro sperimentale di cinematografia in cui mi sono diplomato. Ne avevo grande rispetto, e anche timore. È il padre del neorealismo italiano. Sordi è stato uno degli attori più importanti del nostro cinema: ha avuto la fortuna di incrociare un periodo ricco di storie e grandi sceneggiatori. A Sergio Leone devo il primo film, Un sacco bello, dopo il successo tv».
Quando incontra Christian De Sica, suo cognato, che vi dite?
«Finiamo sempre e inevitabilmente per rammentare il passato: la scuola, i primi film, le vacanze d’estate a Capri. Christian era il mio compagno di banco. Uno showman, faceva Fred Astaire in classe, gli insegnanti impazzivano per lui, i compagni meno, preferivano i Led Zeppelin. Io imitavo i prof: occhiali, sigaretta, tosse e catarro. Ridiamo molto, io e Christian. Ma quel mondo, no: non esiste più».