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 2016  giugno 08 Mercoledì calendario

La nostra non è più una Repubblica fondata sui cespugli

Se fosse un film, diciamo «Provaci ancora Denis», il nostro Verdini sarebbe interpretato da Woody Allen e nel momento topico si sentirebbe dire: «Sparisci sgorbio». E però non soltanto Denis. Anche «Provaci ancora Silvio» o «Provaci ancora Matteo», inteso Salvini, e tutti gli altri: Stefano (Fassina), Francesco (Storace) eccetera. Non è un buon momento per essere o diventare cespugli e cioè, nel gergo politico, i partitini verdeggianti all’ombra del partitone, lì sotto a fare mucchio. Un tempo a fine elezioni il leader del cespuglio proclamava: «Siamo determinanti!». Romano Prodi fu ricattato per due anni – dopo la vittoria del 2006 – da una dozzina di cespugli ognuno dei quali, siccome il centrosinistra aveva vinto di 24 mila voti, autorizzato a rivendicare la propria indispensabilità. Il giochino è durato un ventennio. E di colpo, e forse per combinazione, il cespuglio è diventato uno sgorbio, in particolare Denis Verdini scansato con disprezzo da Matteo Renzi: «Certe alleanze sono state sbagliate». La colpa di Verdini e della sua Ala (Alleanza liberalpopolare autonomie) è di aver portato pochi voti ai candidati del centrosinistra, e probabilmente di averne sottratti per impresentabilità sociale, quando invece i pochi voti portati in Parlamento alle riforme costituzionali erano bijou. In politica non c’è gratitudine, si sa. O meglio, lo sanno tutti tranne Silvio Berlusconi che alla dimensione di cespuglio non si abituerà mai. Per lui sono ingrati anche i tifosi del Milan – colpevoli di non vivere di ricordi – e probabilmente Alfio Marchini, garbatamente consapevole già domenica notte che Forza Italia, col suo drammatico 4,2 per cento a Roma, gli ha portato un danno e non un beneficio: «Senza Berlusconi, sarei arrivato al quindici o al diciotto (e s’è fermato all’undici, ndr)». E a questo punto piacerebbe conoscere nel dettaglio il pensiero di Giorgia Meloni, la quale senz’altro si aspettava di più dalla Lega, presente sotto forma di Noi con Salvini e ferma a Roma al 2,7 per cento.
Non è proprio aria. Perché poi Meloni stessa ha poco da dire come ha poco da portare, l’1,2 per cento a Napoli, il 2,4 per cento a Milano, l’1,4 per cento a Torino. Naturalmente non ci si doveva aspettare che al posto del «siamo determinanti!» qualcuno si alzasse a dire «siamo dannosi» o persino «non serviamo a un piffero». L’unico è stato Francesco Storace, uscito dalle elezioni romane, lui che è stato governatore del Lazio, con un imbarazzante 0,6 per cento, meno di settemila e cinquecento voti. «Sono basito», ha detto, ed è stato sufficientemente lucido da non ricordarci l’endorserment di Gianfranco Fini, che da qualche tempo in qua non è precisamente un talismano. Con Storace e Fini c’era anche Gianni Alemanno, e se consideriamo l’incidenza di Maurizio Gasparri nel 4 per cento di Forza Italia a Roma, non è facile nemmeno attribuire il titolo di cespuglio a quello che fu il Movimento sociale.
Ma davvero non si capisce questa smania scissionista, da una parte e dall’altra, se poi quelli di Sinistra Italiana stanno appena sopra il tre e mezzo a Torino e Milano, percentuali con cui certi fuoriclasse come Pier Ferdinando Casini o Clemente Mastella campavano un quinquennio. Ora vengono buone per interviste contrite. E per crepuscoli senza gloria. L’Italia dei Valori – partito nel quale Antonio Di Pietro non c’entra più nulla – a Milano ha raccattato lo 0,6, qualcosa meno del comunista Marco Rizzo con lo 0,8 a Torino. E nessuno è in grado di valutare l’impatto di Angelino Alfano con il suo Ncd. Lui si dice molto soddisfatto, probabilmente di non aver presentato il simbolo. «Provaci ancora Angelino!».