La Gazzetta dello Sport, 8 giugno 2016
Ritratto di Giampiero Ventura, il provinciale
Giampiero Ventura è il quarto c.t. di estrazione sampdoriana. Prima di lui, alla guida della Nazionale, ci sono stati altri tre selezionatori a matrice blucerchiata, chi più chi meno: Bernardini, Vicini e Lippi. Ventura, dei quattro, è l’unico genovese, e come tanti concittadini ha fatto fortuna altrove: «Genova – diceva Fabrizio De André – è una città da rimpiangere».
ORIGINI La Liguria è regione disegnata ad arco: Genova sta proprio al centro, ma si allunga per chilometri ai lati. Chi nasce a destra, guardando la cartina, nelle delegazioni di Levante tipo Quarto, Quinto e Nervi, gode in media di maggior benessere rispetto a chi viene al mondo a sinistra, dove ci sono i quartieri operai del Ponente: Sampierdarena, da cui la Sampdoria, poi Cornigliano, Sestri, fino al porto di Voltri. Ventura è cresciuto a Cornigliano, dove campeggiavano gli altoforni dell’Italsider. Un posto che nei Settanta non offriva prospettive esaltanti: il lavoro in acciaieria, il tunnel dell’eroina, la tentazione di immergersi nel brodo di coltura del terrorismo brigatista, e a volte le tre cose coincidevano. Ventura l’ha scampata: «Se ho svoltato, lo devo a un prete, padre Guzzi – ha raccontato alla Gazzetta –: non ci parlava di Dio, ma dell’importanza di studiare. Nei primi due anni delle superiori ero il migliore allievo del Palazzi (istituto di ragioneria, ndr)». Il percorso scolastico del nuovo c.t. prese un’altra piega – un periodo all’Itis, il diploma Isef –, ma le dritte di don Guzzi e il calcio hanno evitato che Ventura restasse prigioniero della fuliggine di Cornigliano. La memoria maestra di vita: «Un giorno, quando ero alla Samp da preparatore, portai quattro giocatori ai cancelli dell’Italsider per far vedere loro che cosa significasse il lavoro vero».
PROVINCIALE Ventura, calcisticamente parlando, è un provinciale nel senso migliore del termine, della provincia italiana intesa come grande laboratorio di pallone. Da allenatore professionista ha cominciato in Liguria alla metà degli Anni Ottanta, Entella e Spezia, riviera di Levante. È stato «sacchiano» prima di Sacchi, il suo calcio già allora tracimava corsa, pressione e rapidità, anche se all’Entella molte partite gliele risolveva un trequartista stagionato, certo Scarpa, che però scarpa non era. Forse perché a ramazzare palloni provvedeva un tale Luciano Spalletti, che all’epoca portava capelli lunghi, tipo apache. Cruciale il 1987, quando Ventura lascia la Liguria «matrigna» e comincia il suo trentennale giro d’Italia. Allenerà ovunque, isole comprese. Ha provato a essere profeta in patria e sulla panchina della squadra del cuore, la Samp, ma il ritorno a Bogliasco gli ha detto male perché l’aforisma di De André è implacabile. Genova, i genovesi migranti, la possono soltanto rimpiangere.
PAROLE CHIAVE Ventura è un ligure di mare – ne esistono di montagna, tipo Pruzzo, anche se sembra impossibile –, abbronzato fisso e con discreto tasso di permalosità: difficile che un genovese sia permaloso-esente. Appartiene alla genìa dei gaudenti, sa vivere e possiede facilità di battuta. Jimmy Ghione di Striscia gli ha fatto da testimone di nozze e Piero Chiambretti figurava tra gli invitati. A volte usa un linguaggio da cabarettista, due i cavalli di battaglia. Il primo: «Io alleno per libidine». Il secondo: «Bisogna far frullare la palla». La parola libidine sembra ereditata da certi film con Jerry Calà, «frullare» è verbo che si presta a doppi sensi. L’altro giorno alla Gazzetta il d.s. della Roma, Walter Sabatini, ha detto che «il gol è penetrazione» e i principi del gioco «venturiano» hanno qualcosa del sesso selvaggio, senza troppi preliminari. Si corre, si cerca la profondità, ci si allarga sulle fasce. Quest’ultimo deve essere un retaggio dell’adolescenza del nuovo c.t., stagioni in cui andavano forte Garrincha e Best, geni con le ali. «Tiqui taca» no, Genova è spalmata su due riviere, ma stretta tra mare e monti. Città verticale, mai orizzontale, come il calcio di Ventura.