il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2016
La guerra di Fedez & Co alla Siae, spiegata bene
Il primo è stato il rapper Fedez che ha deciso di lasciare la Siae, la società italiana autori ed editori, per affidare la gestione dei suoi diritti d’autore alla startup Soundreef, con sede a Londra ma fondata nel 2011 dagli italiani Francesco Danieli e Davide d’Atri. Poi è stato il turno di Gigi D’Alessio. Il tema della liberalizzazione della gestione dei diritti d’autore è destinato a diventare ingombrante nel panorama della musica italiana. Lunedì, ad esempio, il presidente dell’antitrust Giuseppe Pitruzzella ha fatto sapere di aver inoltrato un parere al presidente del Consiglio in cui si dice che, sostanzialmente, il monopolio di una sola società non fa bene nè al mercato, né agli artisti. Soprattutto nel contesto europeo. Nello stesso giorno, è stata annunciata la presentazione di un emendamento trasversale (Pd e gruppo Misto) alla legge in discussione al Senato per abolire il monopolio della Siae. E anche il M5s si è più volte dimostrato contrario.
Il compito della Siae è quello di tutelare i diritti di un’opera e fare da intermediatore, oltre che regolare e controllare il sistema in cui l’opera si diffonde. Un incarico che la società, oggi guidata da Fabrizio Sugar, ricopre ormai da 134 anni, per legge, in modo esclusivo. Eppure, una direttiva europea del 2014 prevede che autori ed editori siano liberi di farsi rappresentare da qualsiasi altra società. E, soprattutto, che siano liberi di stabilire le condizioni per l’uso delle proprie opere. L’Italia ha avuto due anni per recepirla con una legge, ma non lo ha fatto.
“La posizione dell’antitrust è a favore della liberalizzazione – spiega Maria Francesca Quattrone, avvocato specializzato in proprietà industriale e intellettuale e organizzatrice del dibattito che si terrà oggi alla università Luiss di Roma per discutere degli effetti della direttiva –. Riguarda la digitalizzazione delle opere e la libertà di scegliere l’organismo di gestione. Ed è su questo secondo punto che ci si sta scontrando, anche nel governo”.
Il contesto è vario: tecnologico ed economico, visto che l’Unione europea mira alla creazione di mercato unico digitale. Lo spiega Innocenzo Genna, direttore di Eurispa che è l’associazione europea degli internet service provider. “In passato c’era maggiore libertà per i monopoli. Poi l’Unione europea ha messo dei vincoli”. I monopoli possono esserci solo se necessari e giustificati. “Sono presenze scomode – dice Genna – e se lo Stato li vuole deve fare in modo che il loro impatto sia minimo. E deve essere motivato. Per le sigarette, alla base c’è la salute pubblica”.
Tanto che il monopolio dei diritti d’autore è rimasto solo in Italia e Repubblica Ceca. “Con il digitale è tutto cambiato. In analogico, era necessaria un’organizzazione stabile sul territorio per verificare tutto quello che veniva effettivamente trasmesso o tutto ciò che effettivamente si faceva con un determinato brano. Adesso, invece, la raccolta dei diritti avviene anche e soprattutto tramite nuove tecnologie. E non ci sono confini”.
Nei mesi scorsi, il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini si era detto favorevole alla liberalizzazione dei diritti d’autore. Poi era bastata qualche audizione (tra cui quella dello stesso Sugar) a fargli cambiare idea: “Molti Paesi – aveva poi detto – guardano con attenzione e invidia al fatto che abbiamo un’unica società. L’inadeguatezza e la necessità di una maggiore trasparenza, efficienza e funzionalità della Siae, non è un buon motivo per cambiare il sistema ma per riformarlo”.
Riforma più volte promessa, ma ancora lontana. “Il problema – spiega l’avvocata Quattrone – è che queste società sono in crisi: non sono efficienti né trasparenti, non informano i titolari dei benefici dei loro diritti né dei consensi che possono ottenere. Ci vuole un ammodernamento di queste strutture, di tutte e non solo della Siae”. A tenerne d’occhio il comportamento sono proprio i legali degli artisti o degli altri portatori di interesse (dalle case discografiche ai produttori): rendiconti poco dettagliati, difficoltà nel capire perché si sia ricevuta una certa cifra, a quale tipo di sfruttamento dell’opera si riferisce. Spesso manca il dettaglio di utilizzo perché ci sono accordi su forfettari tra le collecting e gli utilizzatori. “Gli artisti di solito o non sono formati o non vogliono discutere – spiega Quattroni –. Per chi li assiste è chiaro che la loro voce è la più importante. Lamentano pagamenti tardivi e poca efficienza, dovuta magari al fatto che la mole di lavoro da gestire per questi organismi è molto, molto grande. Liberalizzare potrebbe forse significare anche creare collaborazione e condivisione. E lasciare libertà di scelta”.