il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2016
La stagnazione secolare non è quella che pensate
Alle 10 domande poste sul Fatto da Fabio Scacciavillani sulla stagnazione secolare sarebbe necessario rispondere con ben altro spazio. Ma proverò a essere sintetico, rischiando di essere apodittico.
1. Un rallentamento da mancate innovazioni? Se il riferimento è alla stagnazione iniziata nel 2008, la risposta è no: non c’è stato prima del 2008 alcun rallentamento nel processo innovativo nel mondo né – nel 2008 e anni seguenti – il lavoro ha smesso di essere produttivo, né la natura è divenuta più avara, né abbiamo disimparato come fare le cose o i mercati sono divenuti meno concorrenziali o più rigidi. La crisi non è nata “dal lato dell’offerta” e non ha trovato né troverà vie d’uscita da quel lato. La situazione di oggi (come la Grande depressione) è dovuta alla caduta della domanda aggregata, innescata da una crisi finanziaria. Una accettabile ripresa c’è stata negli Usa, dove nel 2009-2010 una politica di espansione della domanda alimentata dal deficit pubblico è stata fatta, insieme a una politica monetaria fortemente espansiva. Nell’Eurozona è stata seguita la strada dell’austerità, cercando di ridurre i deficit di bilancio quando invece bisognava espanderli (specie nei paesi dove i deficit erano bassi) e la politica monetaria della Bce ha inanellato una serie di errori, almeno fino all’ascesa di Mario Draghi alla presidenza e forse oltre. Se fai una politica “pro-ciclica” in fase di depressione ti devi aspettare che la depressione peggiori.
2. Da un eccesso mondiale di indebitamento? (Bolle ecc.) Le bolle aiutano la crescita. Il problema è che sono in genere alimentate da crescente indebitamento dei privati (famiglie, imprese, banche e altri operatori finanziari). Le bolle sono perciò accompagnate da crescente fragilità finanziaria, alla base del loro scoppio. E quando una bolla scoppia tutti cercano di ridurre le proprie esposizioni debitorie, risparmiano di più e rinviano le spese al futuro (anche perché si aspettano deflazione). La domanda di beni e servizi si contrae. Le banche si trovano improvvisamente senza risorse per finanziare gli investimenti delle imprese, il cui grado di insolvenza aumenta, perché a loro volta non riescono a incassare dai clienti. Il che rende le banche ancora meno propense a concedere prestiti nel timore di veder aumentare le “sofferenze”. La regolazione del sistema finanziario è risultata “pro-ciclica”: lasca e permissiva quando la bolla si stava gonfiando per poi diventare rigida e rigorosa a bolla scoppiata, con la conseguenza di ampliare gli effetti depressivi.
3. Dal ristagno demografico? Se il problema fosse il ristagno demografico, assisteremmo a un rallentamento della crescita del Pil ma a un aumento o a una stagnazione di quello pro-capite. Non è stato e non è così. Il Pil pro-capite dell’Eurozona (dove la demografia è più debole) si è allontanato (verso il basso) da quello degli Stati Uniti (dove la demografia è più sostenuta).
4. Da come si calcola il Pil (servizi)? Il Pil si calcolava nello stesso modo nel 2007 e nel 2009. Eppure in Italia il Pil del 2009 era di circa il 6% più basso di quello del 2007. Né c’è stato alcun cambiamento traumatico della composizione del Pil in quel biennio. Negli Stati Uniti l’industria conta ancor meno che in Europa (specialmente meno che in Germania e Italia) eppure la ripresa è stata molto più energica.
5. Da un eccesso di vincoli all’innovazione? Non è rintracciabile alcuna differenza tra il regime “vincolistico” pre-crisi e post crisi. Il rasoio di Ockham permette di escludere anche questo.
6. Tocca allo Stato o ai privati innovare? L’esperienza degli Stati Uniti mostra che le grandi innovazioni nascono da sinergie e complementarietà tra ingente spesa pubblica per la ricerca e start-up finanziate da venture capital, che utilizzano i risultati della ricerca pubblica (o finanziata dal pubblico) per innovare prodotti e tecnologie. Nessuna impostazione ideologica che contrapponga pubblico a privato ha chance di rendere più innovativo un Paese.
7. Da un eccesso di diseguaglianze? Certo c’è una coincidenza: l’età dell’oro del capitalismo si è accompagnata a una distribuzione del reddito via via più ugualitaria. Poi, dagli anni 80 del secolo scorso, la ricchezza si è concentrata nelle mani del “top 1%” della società e si sono divaricati anche i redditi, con un progressivo impoverimento dei ceti medi e guadagni straordinari per le superstar dello sport e della finanza. Altra coincidenza: nel 2008 la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, negli Usa, era tornata ai livelli del 1929…
8. Da problemi di bilancio energetico? E che c’azzecca?
9. Dal ruolo del dollaro nel quadro finanziario globale? Il ruolo del dollaro si è ridotto da quando c’è l’euro. Ma non è questo il problema della finanza internazionale globalizzata.
10. Che fare? La prima cosa è non farsi dominare dai mantra: “Riforme strutturali”, “consolidamento fiscale”, “competitività”. Si tratta di ossessioni pericolose che si traducono in politiche controproducenti (come l’austerità che fa aumentare la disoccupazione e il rapporto debito/Pil). Ci vuole una spesa ingente per investimenti utili e avviabili rapidamente a livello europeo (non quel “non starter” del piano Juncker); un piano finanziato con l’emissione di moneta da parte della Bce. Investimenti e non spesa qualsiasi, perché solo gli investimenti hanno sia l’effetto di espandere la domanda nel breve periodo, sia quello di ampliare la capacità produttiva e quindi il Pil potenziale, sia quello di stimolare l’innovazione. Purché non si identifichino gli investimenti col solo cemento delle grandi infrastrutture.