il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2016
L’Italia è l’ultima dell’Unione per numero di laureati (e lo sarà anche nel 2020)
Un problema ormai centrale per il futuro del Paese che non è stato ancora affrontato dai poteri fondamentali dello Stato, né dal governo delle larghe intese Renzi-Alfano, né dal Parlamento e tantomeno dai partiti trasformatisi nell’ultimo ventennio populista in associazioni rette da un uomo solo al comando, è – senza dubbi ormai – l’università e la ricerca scientifica. Intese queste ultime come istruzione terziaria ma soprattutto come area delle professioni, dei mestieri e delle attività di un Paese che è stato tra i fondatori dell’Unione europea. Paese che aspira, quindi, a restare nei G7 o G8 e in tutte le organizzazioni internazionali avendo qualcosa da dire e da decidere con gli altri grandi Paesi dell’Europa e dell’Occidente capitalistico.
Che cosa emerge oggi dai risultati di un’approfondita inchiesta socio-economico-culturale compiuta dalla Fondazione Res e curata dall’economista Gianfranco Viesti e pubblicata in questi giorni dall’editore Donzelli in una delle sue collane?
Il primo aspetto notevole è che il sistema universitario italiano è diventato significativamente più piccolo di circa un quinto, rispetto alla massima dimensione che è stata, fra il 2004 e il 2008, tra il 2014 e il 2015 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila, passando da circa 326 mila a meno di 260 mila (-20%); i docenti da poco meno di 63 mila a meno di 52 mila (-17%); il personale tecnico amministrativo da 72 mila a 59 mila (-18%); i corsi di studio scendono da 5634 a 4628 (-18%). Il fondo di finanziamento (Ffo) delle università scende, in termini reali, del 22,5%).
L’Italia ha dunque compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua università. Si tratta di una trasformazione opposta a quelle in corso in tutti i Paesi avanzati (e ancor più in quelli emergenti) che continuano invece ad accrescere la propria formazione superiore: basti ricordare che mentre il finanziamento pubblico in Italia si contraeva del 22%, in Germania cresceva del 23%; anche i Paesi mediterranei colpiti dalla crisi hanno ridotto meno il proprio investimento sull’istruzione superiore.
Non è certo solo effetto della crisi: in Italia la riduzione della spesa e del personale è stata maggiore nell’università che negli altri comparti dell’intervento pubblico: tra il 2008 e il 2013 i docenti universitari si riducono del 15%, il totale del pubblico impiego di meno del 4%. La decrescita avviene per di più a partire da dimensioni notevolmente inferiori rispetto al sistema universitario europeo. Dei tanti indicatori disponibili, basta ricordarne uno, di estrema importanza, sia intuitivamente perché riguarda il futuro del nostro Paese sia perché è uno degli indicatori di Europa 2020: la percentuale di giovani dai 20 ai 34 anni in possesso di laurea rispetto al totale è la più bassa del vecchio continente.
L’Europa si è data l’obiettivo nel 2020 di avere il 40 per cento di giovani laureati. L’Italia nel 2014 è al 23,9%: questo la colloca all’ultimo posto tra i 28 Paesi della Unione europea: alla luce delle dinamiche in corso potrebbe essere superata anche dalla Turchia di Erdogan, e nel 2020 si è posta l’obiettivo realistico di arrivare al 26-27% che la manterrebbe all’ultimo posto. La regione italiana con il numero maggiore di laureati è il Lazio, che ha il 31 per cento di laureati e si colloca su un livello pari al Portogallo. Quattro regioni italiane, tutte del Mezzogiorno, si collocano agli ultimi dieci posti per numero di immatricolati, nella graduatoria delle 272 università europee. La Sardegna (17,4%) è penultima nella classifica continentale: la sua percentuale è superiore soltanto alla regione ceca del Severo Zapad. Ed è poco più di un terzo rispetto alla Svezia. Una prova ulteriore dello scarso interesse che le nostre classi dirigenti hanno per le nuove generazioni.a