Corriere della Sera, 7 giugno 2016
Chi ci rimette di più in caso di Brexit
Politici, analisti e la stampa, soprattutto anglosassone, dibattono con toni accesi e agguerriti, ma molto concreti, sulle conseguenze per il Regno Unito dell’imminente referendum sulla fuoriuscita dalla Ue. I due campi, «Brexit» e «Bremain», sfoderano analisi e previsioni, corredate di numeri nei vari campi, con scarsi richiami apodittici alle ideologie. Che differenza rispetto a quanto potrebbe succedere da noi nel caso (malaugurato) di un simile referendum, peraltro non consentito dalla Costituzione! Per converso, sono ben poche le analisi e i confronti sulle conseguenze per la Ue e gli altri 27 Paesi membri dell’uscita del Regno Unito o della sua permanenza, salvo vaghi appelli a non rompere l’unità del continente. Difficile quindi prendere posizione per noi «continentali», anche perché non si dibatte a sufficienza sulla circostanza che la permanenza di Londra nella Ue avverrebbe al costo di un’accresciuta complicazione del suo già particolare status, dopo l’accordo negoziato mesi fa su pressione del premier Cameron. L’impressione è che entrambi gli scenari presentino incognite potenzialmente dirompenti per le possibilità di rilancio del vecchio progetto di unità politica europea.
Stefano Zanini
stefanozanini@hotmail.it
Caro Zanini,
Lei si chiede se l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea danneggerebbe maggiormente gli inglesi o i Paesi che continueranno a farne parte. Vi saranno danni in entrambi i campi, ma di natura alquanto diversa. Per noi molto dipende dal giudizio che daranno i mercati e, più generalmente, le opinioni pubbliche. Potrebbero decidere che quello degli elettori britannici è un voto di sfiducia, una evidente dimostrazione dello scarso credito di cui gode l’Ue dopo i travagli provocati dalla crisi greca, dalle polemiche contro l’«egemonia tedesca», dalla mancanza di solidarietà nella questione dei migranti. Non è facile fare previsioni. Nelle reazioni dei mercati e delle opinioni pubbliche vi è spesso un’alta percentuale di irrazionalità.
I danni che l’uscita dall’Ue infliggerebbe alla Gran Bretagna, invece, sono più facilmente calcolabili. In primo luogo, le industrie britanniche dovrebbero rinunciare al mercato unico, vale a dire al più grande consumatore mondiale di beni e servizi. Sarà nell’interesse di tutti, senza dubbio, cercare formule che ricostruiscano, per quanto possibile, la libertà degli scambi. Ma occorrerà sconfiggere i protezionismi che non mancheranno di fare nuovamente capolino al di qua e al di là della Manica.
In secondo luogo, la Gran Bretagna sarà costretta a rinegoziare tutti i singoli accordi commerciali che la Commissione di Bruxelles ha firmato, a nome della totalità dei suoi membri, con gli Stati del mondo. E questa sarà, probabilmente, una vera e propria fatica di Ercole.
A prima vista quindi, caro Zanini, direi che la Gran Bretagna, se uscisse dall’Ue, correrebbe i rischi maggiori. Ma sarà bene non sottovalutare il rischio «sfiducia» a cui ho fatto riferimento. Per evitarlo, tuttavia, esiste una contromossa che consiste nel rispondere all’uscita della Gran Bretagna con una coraggiosa iniziativa europeista. Nell’intervista data ad Antonio Ferrari sul Corriere del 4 giugno, Piero Ottone ha detto: «Sono un convinto anglofono e non riesco a immaginare una Ue senza l’Inghilterra; ma nello stesso tempo penso che soltanto uno choc potrebbe convincere i Paesi dell’Unione a fare quello che finora non hanno fatto». Ottone allude a quella ulteriore condivisione di sovranità che farebbe dell’Unione Europea, finalmente, uno Stato federale.