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 2016  giugno 07 Martedì calendario

Dadada, la password scema di Zuckerberg

Quando si dice coerenza: «Le persone trovano normale non solo condividere maggiori informazioni in diversi modi, ma in maniera più aperta e diffusa. Per questo le regole sociali sono solo qualcosa che cambia nel tempo. La privacy non durerà a lungo». Parole sante devono avere pensato gli hacker. È finita l’era della privacy avevano titolato allora i giornali. Sei anni dopo avere pontificato sul tema ai Crunchies awards di San Francisco (11 gennaio 2010), Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ha lasciato la password «dadada» al suo account Twitter. Come mettere un chiavistello della nonna a una porta blindata. Ieri è emerso che un gruppo di hacker – nascosti sotto il nome OurMine – ha spaccato il chiavistello e ha invaso l’account Twitter in realtà in disuso.
La bravura di Zuckerberg come sviluppatore è fuori discussione: la migliore scena del film The social network è quella in cui, per ribattere alle accuse di avere «rubato» l’idea, risponde con supponenza che Facebook lo ha fatto lui perché solo lui era capace di farlo. Ma quando si diventa i più giovani miliardari della storia è giusto finire sotto i riflettori. Anche perché, se è vero quanto hanno fatto trapelare gli hacker, sarebbe la stessa password che Zuckerberg aveva usato per il suo profilo LinkedIn e che era già stata sottratta con una rete a strascico su Internet nel 2012, insieme ad altri 100 milioni di profili. «Noi crediamo molto nella criptazione dei dati» aveva detto lo stesso Zuckerberg lo scorso febbraio per scendere in appoggio alla Apple nella vexata quaestio che la contrapponeva all’Fbi: è giusto o meno forzare l’iPhone di un terrorista? Se cripto i dati ma lascio la porta aperta non serve a niente gli avrebbero potuto spiegare in un corso base di sicurezza aziendale.
La contraddizione è proprio questa: il suo è solo l’ultimo degli account Vip violati in questo periodo. E alcuni di essi appartenevano a campioni della sicurezza, persone inviolabili secondo l’immaginario comune. Oltre a Twitter e LinkedIn nel suo caso sarebbero stati violati anche i profili di Pinterest e di Instagram. Tutti più o meno dormienti, come quello dei servizi Google. È facile immaginare che Zuckerberg li abbia aperti tanto per provarli all’inizio, per poi dimenticarsene. Ma è anche vero che chi gestisce miliardi di altri azionisti dovrebbe mostrarsi un pochino più accorto.
Facebook ha comunicato che nessun account del fondatore risulta essere stato messo in pericolo. Come dire che non sono in discussione Facebook e, soprattutto, WhatsApp, in piena campagna sulla sicurezza (avete notato che quando lo usate vi compare una scritta sulle mirabili virtù delle comunicazioni criptate?). Capire quanto ci sia di vero nella campagna degli hacker è in effetti difficile, anche se la violazione dell’account Twitter non è stata negata. Forse perché si tratta di una società concorrente, nel suo piccolo, con cui Zuckerberg ha dei conti aperti: nel suo libro su Twitter, Nick Bilton, ex columnist del New York Times, raccontava come il fondatore di Facebook avesse tentato di comprare Twitter agli esordi per farla morire in culla. Ma questa è dietrologia. Il succo del discorso è che nessuno può sentirsi veramente al sicuro nell’utilizzare degli account digitali. Lo sanno gli hacker. Lo sanno le società della Rete. Lo sa anche Zuckerberg. Ma certo, affidarsi al dadaismo per proteggersi è un po’ naif.