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 2016  giugno 06 Lunedì calendario

I sessant’anni di Bjorn Borg, che non invecchia mai, come i veri eroi

Gli eroi non invecchiano mai. E allora, anche se compie sessant’anni, di Bjorn Borg rimarranno per sempre eterne le immagini giovanili di quando ha cambiato la storia del tennis. Saranno i posteri ad assegnargli il posto giusto, comunque vicino al cielo, tra i più grandi di sempre, ma non c’è dubbio che è esistita un’era prima e dopo Borg, con lo svedese che si fece messia non solo di un radicale cambiamento tecnico, ma anche di una percezione totalmente nuova del tennis. Come disse Ilie Nastase dopo la finale persa contro di lui a Wimbledon nel 1976, «mandatelo su un altro pianeta, noi giochiamo a tennis, lui a un’altra cosa».
Talento precocissimo strappato all’hockey e al ping pong, a 15 anni già debutta e vince un match in Davis (record) e a 18 conquista prima Roma e poi Parigi, entrando in modo dirompente in un mondo che è rimasto identico a se stesso praticamente da un secolo. È vero, c’erano stati già interpreti del rovescio a due mani e, appena prima di lui, Connors lo aveva sdoganato ad alti livelli, ma le generazioni successive si sono ispirate a lui per abbandonare, salvo rare e lodevoli eccezioni, il rovescio tradizionale. Ma l’impatto di Bjorn (tra l’altro il primo giocatore a farsi accompagnare dal coach, Lennart Bergelin) sulla tecnica è legato soprattutto all’uso esasperato del top spin, cioè della rotazione impressa alla palla con il taglio dal basso verso l’alto, per il quale si richiedono doti fisiche e di controllo del corpo eccezionali: sparisce il giocatore che cerca in fretta la rete, sostituito dal maratoneta che mette pressione da fondo e si affida alla difesa esasperata, anche se sull’erba è stato poi in grado di snaturarsi (scendeva a rete, basta guardare i filmati dell’epoca) e di vincere cinque volte Wimbledon, peraltro senza mai disputare in carriera alcun altro torneo sui prati.
Ma al successo di Borg ha contribuito l’immagine glaciale eppur affascinante, i lunghi capelli biondi tenuti da una fascia, la barba quasi incolta, lo sguardo penetrante. Insomma, Bjorn è diventato presto un’icona, dando vita negli anni 70, insieme agli Abba e a Ingemar Stenmark, a quello che alcuni definirono addirittura Rinascimento Svedese. E, come sempre, la grandezza di un personaggio viene amplificata dalla forza degli avversari. Lui non sarebbe entrato così presto nel mito se non avesse incontrato John McEnroe, una rivalità che ha portato il tennis in una nuova dimensione, rendendolo popolare anche al di fuori della cerchia ristretta dei club e quindi appetibile per tv e sponsor: «Venivamo da due culture diverse, ma eravamo più simili di quanto sembrasse: tutti e due detestavamo perdere e volevamo essere i migliori». La loro finale a Wimbledon del 1980, quella del famoso tie break dei 34 punti, è unanimemente considerata la più bella partita di sempre.
Gli anni migliori dello svedese sono quelli tra il 1978 e il 1980 quando, unico giocatore a riuscirci, vince per tre volte consecutive Parigi e Wimbledon, dando il senso di un dominio che solo il cemento americano riuscirà ad incrinare, con le finali perse nel 1978 (da Connors) e nel 1980 (da McEnroe) che probabilmente gli hanno impedito il Grande Slam. Numero uno per 109 settimane, 64 tornei in carriera (11 Slam), il declino di Bjorn, come ha ammesso lui stesso, inizia proprio da quella finale vinta a Wimbledon nel 1980, quando si rende conto che qualcuno è arrivato molto vicino a batterlo. Stanco, con il fisico e la mente logorati, annuncia il ritiro nel gennaio 1983. Da quel momento, i tentativi di un mesto rientro nel 1991 e nel 1993 ne offuscano solo in parte l’immagine, insieme al matrimonio (il suo secondo) con la Berté dal 1989 al 1993, costellato di liti furibonde e tentativi di suicidio e alla bancarotta che lo costringe, nel 2006, a mettere all’asta alcuni trofei (tra cui due racchette) per racimolare denaro, prima che Agassi e McEnroe lo convincano a soprassedere. L’uomo avrà avuto le sue pecche, ma il giocatore resta eccezionale, un vero simbolo e ancora oggi il migliore per percentuale di partite vinte in carriera, l’82,74%. Un fenomeno che la Svezia ha giustamente premiato come suo più forte sportivo di sempre, facendo arrabbiare Ibrahimovic. Ma questo è un dettaglio. Auguri, Bjorn.