la Repubblica, 5 giugno 2016
Il viaggio di Jonathan Franzen alla fine del mondo, tra i pinguini dell’Antartide
Due anni fa un avvocato dell’Indiana mi spedì un assegno di settantottomila dollari. Erano soldi di mio zio Walt, morto sei mesi prima. Non mi aspettavo del denaro da lui, né tantomeno contavo su una somma del genere, così pensai di destinare l’eredità a uno scopo speciale, in onore della memoria di Walt. Si dà il caso che la mia compagna, una californiana, mi avesse promesso di partire assieme a me per una bella vacanza, in segno di gratitudine per la comprensione che le avevo dimostrato nel momento in cui era dovuta rientrare a Santa Cruz per badare alla madre novantaquattrenne, che aveva perso la memoria a breve termine. Mi aveva detto, d’impulso, «Ti accompagno ovunque tu vorrai, dove saresti sempre voluto andare». Al che, per ragioni che non so spiegare, risposi «Antartide?». Il modo in cui spalancò gli occhi avrebbe dovuto mettermi sull’avviso. Ma una promessa è una promessa.
Nella speranza di rendere l’Antartide più appetibile alla mia mite californiana, decisi di spendere i soldi di Walt prenotando il più lussuoso dei viaggi – tre settimane in Antartide, arcipelago della Georgia del Sud e isole Falkland, con una spedizione Lindblad-National Geographic. Versai una caparra e non senza apprensione presi a ironizzare con la californiana sul freddo indecente e i flutti del Polo Sud di cui si era fatta vittima consenziente. Le garantivo di continuo che alla vista del primo pinguino sarebbe stata felice del viaggio. Ma al momento di saldare la quota mi chiese di rimandare di un anno la partenza, se possibile. Le condizioni di sua madre erano instabili ed era restìa a spostarsi così irrimediabilmente lontano da casa.
A quel punto anch’io avevo maturato una certa avversione per il viaggio, non riuscivo quasi a ricordare perché poi avessi proposto proprio l’Antartide. L’idea di vederlo “prima che si sciolga” era tetra e si annullava da sola: perché invece non aspettare proprio che si sciogliesse, autoeliminandosi dalla lista delle destinazioni? Mi scoraggiava anche la valenza di trofeo attribuita al settimo continente, una meta troppo remota e costosa per il turista comune. Era vero che vi si potevano vedere uccelli straordinari, oltre ai pinguini specie rare come il chione bianco e l’anthus antarcticus, l’uccello canterino che vive più a sud sulla Terra. Ma la fauna antartica è numericamente limitata e mi ero già rassegnato all’impossibilità di vedere tutte le specie avicole del mondo. Il motivo più valido che potessi immaginare per il viaggio in Antartide era che non rientrava nei nostri schemi; la californiana e io sapevamo per esperienza che la vacanza ideale per noi era di tre giorni. Pensai che restando tre settimane in mare senza possibilità di fuga, lei e io, potevamo scoprire in noi nuove risorse. Avremmo vissuto un’esperienza da condividere per il resto della nostra vita.
Così acconsentii a posticipare di un anno. Mi trasferii io a Santa Cruz. Poi la madre della californiana subì una brutta caduta e la californiana aveva ancora più remore a lasciarla sola. Resomi conto, infine, che non era mio compito complicarle ulteriormente la vita, la esonerai dal viaggio. Per fortuna mio fratello Tom, l’unica persona con cui riuscivo a immaginare di condividere per tre settimane una cabina di dimensioni ridotte, era appena andato in pensione e si prestò come sostituto. Prenotai due letti singoli al posto del matrimoniale e ordinai stivali di gomma termoisolanti e una guida riccamente illustrata della fauna antartica. Anche così però, all’approssimarsi della partenza, non riuscivo a dire che andavo in Antartide, era più forte di me. «A quanto pare vado in Antartide», ripetevo. Tom si diceva elettrizzato ma in me non faceva che crescere una sensazione di irrealtà, l’incapacità di provare trepidazione. Forse era perché l’Antartide mi ricordava la morte – la morte ambientale incombente per via del riscaldamento globale, o il limite ultimo per vedere quella terra, rappresentato dalla mia stessa morte. Presi però ad apprezzare intensamente il ritmo della quotidianità con la californiana, la vista del suo viso la mattina, il rumore della serranda del garage al suo ritorno dalla visita serale alla madre. Feci la valigia più che altro in obbedienza all’importo già versato.
AST. LOUIS, NELL’AGOSTO DEL 1976, in una serata abbastanza fresca da poter cenare in veranda con i miei genitori, mia madre si alzò per rispondere al telefono della cucina e subito chiamò mio padre. «È Irma», disse. Irma era la sorella di mio padre che viveva con Walt a Dover, Delaware. Evidentemente era successa una cosa terribile perché ricordo me in cucina, in piedi accanto a mia madre, e mio padre che interrompe Irma, qualunque cosa stesse dicendo, e urla nella cornetta, come in collera, «Irma, mio Dio, ma è morta?».
Irma e Walt erano i miei padrini, ma non li conoscevo bene. Mia madre non sopportava Irma – sosteneva che fosse stata estremamente viziata dai genitori, a spese di mio padre, e sebbene tra i due Walt doveva essere il più simpatico, un colonnello dell’aeronautica in pensione passato all’incarico di tutor in una scuola superiore, lo conoscevo soprattutto per via di un libro autopubblicato che ci aveva mandato, intitolato Golf eclettico, pillole di saggezza golfistica che io, leggendo tutto il leggibile, avevo letto. Chi avevo visto più spesso era Gail, l’unica figlia di Walt e Irma.
Era una ragazza alta, bella e baldanzosa, che quando era all’università nel Missouri spesso passava a trovarci. Si era laureata l’anno prima e aveva trovato lavoro come apprendista da un argentiere nel centro storico di Williamsburg, in Virginia. Irma chiamava per dirci che Gail, in viaggio da sola, di notte, sotto un diluvio, per andare a un concerto rock in Ohio, aveva perso il controllo dell’auto su una delle strette e tortuose superstrade del West Virginia. Anche se Irma evidentemente non riusciva a dirlo, Gail era morta.
Avevo sedici anni e sapevo cos’era la morte. Eppure, forse perché i miei non mi portarono con loro al funerale, non piansi né mi afflissi per Gail. Mi sembrava piuttosto di avere la sua morte in testa – come se il reticolo dei ricordi di lei, cauterizzato da un ago atroce, costituisse uno spazio nullo, un’area di verità essenziale, negativa. Era uno spazio troppo vietato per accedervi consciamente, ma lì, dietro un cordone mentale, avvertivo l’irreversibilità della morte della mia cara cugina.
A un anno e mezzo dall’incidente, quando ero matricola in Pennsylvania, mia madre mi mandò l’invito di Irma e Walt a passare un fine settimana da loro, con l’ordine inderogabile di accettare. Nel mio immaginario la casa di Dover simboleggiava l’area di verità negativa che avevo in testa. Ci andai in preda a un timore che la casa non fece che giustificare. Aveva l’ordine, l’etichetta e la pulizia opprimente di una residenza ufficiale. Le tende fino al pavimento, nella loro rigidità e precisione di drappeggio, lasciavano intendere che nessun fiato o movimento di Gail le avrebbe mai scomposte. La chioma di mia zia era immacolata e appariva rigida come le tende. Il biancore del viso era enfatizzato da un rossetto cremisi e da pesanti tratti di eyeliner.
Appresi che solo i miei genitori chiamavano Irma Irma; per tutti gli altri era Fran, diminutivo del suo cognome da nubile. Temevo una scena madre di cordoglio, invece Fran riempì i minuti e le ore parlando incessantemente, con voce forzata, troppo alta. I discorsi – sull’arredamento della casa, l’amicizia con il governatore del Delaware, la rotta presa dalla nazione – erano squisitamente noiosi, così avulsi dal comune sentire. Poco alla volta Fran mi parlò di Gail alla stessa maniera: la peculiarità del carattere di Gail, il suo straordinario talento artistico, l’estremo idealismo dei suoi progetti futuri. Io parlai pochissimo, come Walt. Il blaterare di mia zia era insopportabile ma avevo forse già intuito che lo spazio che abitava era in sé insopportabile, e quell’altero disquisire sul nulla, senza interruzione, era il modo per riuscire a sopravvivervi, l’unico modo che aveva in realtà per consentire al visitatore di sopravvivervi. Fondamentalmente compresi che Fran era uscita di senno per accomodamento. A darmi tregua da lei quel fine settimana fu solo il giro in auto con Walt a vedere Dover e la base aeronautica. Walt era snello, alto, di etnia slovena, con il naso aquilino e un accenno di capelli dietro le orecchie. Lo chiamavano Pelato.
Tornai da lui e Fran altre due volte durante l’università e loro vennero alla mia laurea e al mio matrimonio poi, per molti anni, i contatti si limitarono agli auguri di compleanno per cartolina e ai resoconti di mia madre (sempre coloriti dall’antipatia per Fran) delle soste obbligate sue e di mio padre a Boynton Beach, Florida, dove Fran e Walt si erano trasferiti in un complesso residenziale che gravitava attorno al golf. Ma in seguito, dopo la morte di mio padre, mentre mia madre perdeva la sua guerra contro il cancro, avvenne una cosa buffa: Walt si prese una cotta per lei.
Fran ormai del tutto demente, affetta da Alzheimer, era ricoverata in una casa di cura. Dato che anche mio padre aveva avuto l’Alzheimer, Walt aveva telefonato a mia madre in cerca di consiglio e commiserazione. A sentir lei era venuto a St. Louis di sua iniziativa e i due, stando assieme da soli per la prima volta, avevano scoperto di avere molto in comune – erano entrambi degli ottimisti innamorati della vita, a lungo sposati con un Franzen rigido e depresso – tanto che tra loro si stabilì una complicità sconcertante, preludio a un’intimità romantica. Walt l’aveva portata in centro a mangiare nel ristorante che le piaceva tanto e dopo, al volante della sua auto, aveva graffiato il paraurti contro il muro di un’autorimessa; i due, ridacchiando, un po’ brilli, avevano concordato di dividere a metà la spesa del carrozziere senza dire niente a nessuno. (Walt alla fine lo disse a me).
Subito dopo la visita di Walt mia madre si aggravò e andò a Seattle a passare i suoi ultimi giorni a casa di mio fratello Tom. Walt aveva in mente di andare a trovarla e continuare quello che avevano iniziato. Lui proiettava ancora nel futuro il sentimento che li legava. Lei ne aveva una consapevolezza dolceamara, provava tristezza per le opportunità che sapeva di aver perduto.
Fu mia madre a rivelarmi che gioiello fosse mio zio, e furono lo sgomento e il dolore di Walt quando lei morì all’improvviso, senza che avesse potuto rivederla, ad aprire la porta alla nostra amicizia. Aveva bisogno che qualcuno sapesse che si stava innamorando di lei, conoscesse la gioia di quella sorpresa, e capisse il dolore acuto della sua perdita. Perché anch’io negli ultimi anni di vita di mia madre avevo sentito crescere in maniera sorprendente l’ammirazione e l’affetto che nutrivo per lei e dato che avevo molto tempo a disposizione – ero divorziato, senza figli, sottoccupato e ora orfano – divenni l’interlocutore di Walt.
Quando andai per la prima volta a trovarlo nel sud della Florida qualche mese dopo la morte di mia madre, seguimmo il classico iter locale: nove buche al golf del suo condominio, qualche giro di bridge con due suoi amici novantenni a Delray Beach e una sosta alla casa di riposo dove era ricoverata mia zia. La trovammo rannicchiata in posizione fetale nel letto. Walt le diede da mangiare un gelato e un budino, imboccandola teneramente. Quando arrivò l’infermiera a cambiarle un cerotto sull’anca, Fran scoppiò in lacrime, il volto contratto in una smorfia da neonato, lamentandosi che le faceva male, tanto male, che era orribile, che non era giusto.
La lasciammo con l’infermiera e tornammo a casa. Molti degli arredi formali di Fran erano arrivati al suo seguito da Dover, ma ora la semina da scapolo di riviste e scatole di cereali ne allentava la stretta letale. Walt mi raccontò con pura commozione della perdita di Gail e dell’esigenza di sistemare le sue vecchie cose. Volevo prendermi qualche suo disegno? Mi avrebbe fatto comodo la Pentax SLR che lui le aveva regalato? I disegni sembravano esercitazioni scolastiche e non mi serviva una macchina fotografica, ma intuivo che Walt stava cercando un modo per disfarsi di cose che non sopportava di dare semplicemente in beneficienza. Gli dissi che ero felicissimo di prenderle.
ASANTIAGO, LA SERA PRIMA di imbarcarci sul volo charter per l’estrema propaggine meridionale dell’Argentina, Tom e io partecipammo al ricevimento di benvenuto della Lindblad in una sala del Ritz-Carlton. Dato che il prezzo delle cabine sulla nostra nave, la National Geographic Orion, partiva da ventiduemila dollari per arrivare a quasi il doppio, mi ero preparato a fare il viaggio con un certo stereotipo di plutocrate amante della natura – pensionati con la pelle cotta dal sole con mogli trofeo e residenza in paradisi fiscali, magari qualche volto noto della tv. Ma avevo sbagliato i conti. Scoprii che per quel genere di clientela erano previsti degli yacht speciali. La gente che gremiva la sala ricevimenti era meno appariscente di quanto mi aspettassi e meno ottuagenaria. Parecchi di noi erano semplicemente medici o avvocati e, su cento persone, di uomini con pantaloni ascellari ne vidi solo uno.
La terza delle grandi paure che nutrivo a proposito della spedizione, dopo quella di soffrire il mal di mare e di disturbare russando mio fratello, era che non si dedicasse sufficiente impegno a individuare gli esemplari delle rare specie di uccelli dell’Antartide. Dopo il saluto di un componente dello staff della Lindblad, un australiano a cui la compagnia aerea aveva perso il bagaglio, e un primo giro di domande, alzai la mano presentandomi come ornitologo e chiesi se nel gruppo ce ne fossero altri. Speravo di trovare una compagine nutrita ma vidi solo due mani in aria. L’australiano che aveva definito «ottime» tutte le domande precedenti non elogiò la mia. Disse, restando sul vago, che sulla nave ci sarebbero stati membri dello staff che sapevano il fatto loro in ornitologia.
Venni presto a sapere che le mani alzate appartenevano agli unici due passeggeri che non avevano pagato la tariffa piena. Erano una coppia di conservazionisti cinquantenni, Chris e Ada, di Mount Shasta, California. Ada aveva una sorella che lavorava per la Lindblad, e spesso le veniva offerta una cabina a prezzo stracciato dieci giorni prima della partenza, a seguito di una qualche disdetta. Questo me li fece sentire ancora più affini. Pur potendomi permettere la tariffa piena, se fosse stato per me non avrei scelto una crociera con la Lindblad; l’avevo fatto per la californiana, per alleviarle l’impatto con l’Antartide, e mi sentivo anch’io un turista di lusso per caso.
Il giorno successivo, all’aeroporto di Ushuaia, in Argentina, Tom e io ci ritrovammo in fondo alla lenta fila del controllo passaporti. Su sollecitazione della Lindblad, prima di partire avevo pagato la “tassa di reciprocità” che l’Argentina impone ai turisti americani, ma Tom era stato in Argentina tre anni prima e non aveva potuto effettuare un nuovo pagamento online. Si era stampato una copia della negata autorizzazione e l’aveva portata con sé, immaginando che assieme ai timbri argentini sul passaporto gli avrebbe consentito di passare il confine. Invece no. Mentre gli altri passeggeri Lindblad salivano sui bus che ci portava a fare una crociera in catamarano per pranzo, noi restammo a supplicare un funzionario dell’immigrazione. Passò mezz’ora. Passarono altri venti minuti. Gli assistenti della Lindblad si strappavano i capelli. Infine, quando ormai pareva proprio che avrebbero autorizzato Tom a pagare la tassa una seconda volta, corsi fuori e salii sul bus, irrompendo in un mare di occhiatacce. Il viaggio non era ancora iniziato e io e Tom e eravamo già fonte di problemi.
A bordo della Orion, Dough, il capo spedizione, convocò tutti noi nel salone della nave e ci accolse carico di dinamismo. Doug era tarchiato, con la barba bianca, un passato da scenografo. «Questo viaggio è il massimo!» disse al microfono. «Il migliore, con il migliore tour operator, nel posto più bello del mondo. Sono emozionato quanto voi». Si affrettò ad aggiungere che non era una crociera, ma una spedizione e ci avvertì che, all’occorrenza, lui e il capitano non si sarebbero fatti problemi a stracciare il programma, gettarlo via e a andare in cerca della grande avventura.
Nel corso della navigazione, proseguì Doug, due membri dello staff avrebbero dato lezioni di fotografia, e seguito individualmente i passeggeri che intendevano migliorare i loro scatti. Altri due avrebbero fatto immersioni, ove possibile, per fornirci ulteriori immagini. L’australiano che aveva perso il bagaglio non aveva perso il drone ultimo modello, dotato di videocamera ad alta definizione, che aveva ottenuto il permesso di usare nel nostro viaggio a seguito di nove mesi di battaglie. Anche il drone avrebbe fornito immagini. Era inoltre presente a bordo un cameraman incaricato di produrre un dvd che avremmo potuto acquistare alla fine. Ebbi l’impressione che altri in sala avessero un’idea più chiara della mia sullo scopo del viaggio in Antartide. Evidentemente l’obiettivo era portare a casa immagini. Il marchio National Geographic mi aveva fatto pensare alla scienza invece che alle foto, come avrei dovuto. Mi sentii ancor di più la pecora nera dei passeggeri.
Nei giorni successivi imparai cosa chiedere a chi si incontra su una nave Lindblad: «È il tuo primo Lindblad?». Oppure, in alternativa, «Mai fatto un Lindblad?». Trovavo inquietanti queste formule, come se “il Lindblad” fosse qualcosa di vagamente ma dispendiosamente spirituale. Doug iniziava sempre il riepilogo serale nel salone chiedendo: «È stata una giornata fantastica o è stata una giornata fantastica?» e aspettava l’ovazione. Ci tenne a informarci che eravamo stati fortunatissimi nella traversata dello stretto di Drake e quindi avevamo tempo di approdare con i gommoni Zodiac sull’isola di Barrrientos, vicino alla penisola antartica. Era un’occasione straordinaria, non succedeva in tutte le spedizioni Lindblad. Eravamo in tarda stagione di nidificazione del pinguino papua e del pigoscelide antartico. Alcuni piccoli avevano lasciato il nido seguendo i genitori in mare, l’elemento preferito dei pinguini nonché loro unica fonte di cibo. Ma ne erano rimasti a migliaia. Pulcini grigi e lanuginosi correvano dietro qualunque adulto plausibile genitore implorando cibo rigurgitato, o facevano massa per salvarsi dagli skua, uccelli simili ai gabbiani che cacciano i piccoli orfani e più gracili. Molti adulti si erano ritirati su un rilievo per la muta, che li costringe a stare immobili per settimane, soffrendo il prurito e la fame, finché le piume nuove non si sostituiscono alle vecchie. Era umanamente impossibile non ammirare la pazienza dei pinguini in muta, la loro capacità di sopportare in silenzio. Anche se la colonia era tutta cosparsa di guano dall’odore rancido di acido nitrico e la vista dei pulcini orfani e condannati faceva male al cuore, ero già contento di essere lì.
I cerotti a base di scopolamina che Tom e io portavamo sul collo avevano dissipato le mie due ansie principali. Grazie al cerotto e alle acque calme non soffrivo il mal di mare e, con l’aiuto della radio a tutto volume a coprire il mio russare, Tom si faceva dieci ore di sonno profondo da scopolamina ogni notte. La mia terza ansia però l’avevo azzeccata. Neppure una volta un naturalista della Lindblad si unì a Chris, Ada e me a guardare gli uccelli sul ponte di osservazione. Nella biblioteca della Orion non c’era nessuna buona guida alla fauna antartica, bensì decine di libri sugli esploratori del Polo Sud, ad esempio Ernest Shackleton – un personaggio che a bordo era idealizzato quasi quanto l’esperienza Lindblad in sé. Alla manica sinistra del mio parka arancione fornito dal tour operator era cucito un distintivo con un suo ritratto per il centenario del suo epico viaggio su una lancia con partenza da Elephant Island.
LA CALIFORNIANA AVEVA AVUTO RAGIONE a temere le condizioni atmosferiche, faceva più freddo di quanto le avessi fatto credere. Ma io avevo avuto ragione sui pinguini. Dalla penisola antartica, che ne ospitava un’impressionante quantità, la rotta della Orion ci condusse di nuovo a nord e poi a est, fino all’isola della Georgia del Sud, dove erano presenti in numero esorbitante. La Georgia del Sud è uno dei principali siti di riproduzione del pinguino reale, una specie alta quasi quanto il pinguino imperatore e dal piumaggio ancor più appariscente. Vedere un pinguino reale nel suo ambiente mi pareva in sé ragione sufficiente non solo per aver intrapreso il viaggio; mi sembrava ragione sufficiente per essere nato su questa terra. Devo ammettere che ho una passione per gli uccelli. Ma sono convinto che un visitatore proveniente da un altro pianeta osservando il pinguino reale accanto a un esemplare, anche il più perfetto, della specie umana, con sguardo scevro da ogni possibile attrazione sessuale, definirebbe il pinguino senza possibilità di dubbio la specie più bella. E non solo l’ipotetico extraterrestre. A tutti piacciono i pinguini. Dritti su se stessi, pronti a cadere a pancia in giù, agitando le pinne in gesti ampi quasi fossero braccia e avanzando a passettini o zampettando arditi sui piedi carnosi, ricordano i bambini più di qualunque altro animale, grandi primati inclusi.
Essendosi evoluti su coste remote i pinguini antartici sono anche raro esempio di animali che non hanno affatto timore di noi. Quando mi misi a sedere a terra i pinguini reali mi si avvicinarono al punto che avrei potuto accarezzarne le piume lucide, morbide come una pelliccia. Il loro piumaggio aveva la nitidezza e l’intensità di colore esagerate che normalmente si percepiscono solo sotto l’effetto di stupefacenti. Le colonie di papua e di pygoscelis non erano il posto ideale in cui sedersi, per via del guano. Ma i pinguini reali, erano più puliti, per dirla come un naturalista della Lindblad. A St. Andrews Bay, in Georgia del Sud, dove erano ammassati, stretti l’uno all’altro, mezzo milione di reali adulti e di soffici pulcini, alle mie narici arrivava solo aria di mare e di montagna.
Anche se tutti i pinguini hanno il loro fascino – basta pensare ai ciuffi di piume stile glam-rock sul capo del pinguino macaroni, ai saltelli a piedi paralleli con cui il pinguino crestato scala o discende pazientemente un ripido pendio – mi piacevano soprattutto i reali. Associavano una ineguagliabile armonia estetica all’intensa energia sociale del gioco infantile. Dopo aver raggiunto la riva emergendo e inabissandosi come delfini un gruppo di reali correva via dai frangenti a pinne larghe e tremule, come se l’acqua fosse troppo fredda. Un esemplare solitario, in piedi in acqua bassa, fissava l’orizzonte così a lungo che ti chiedevi quali pensieri gli attraversassero la mente. Due giovani maschi che seguivano caracollando una femmina indecisa, si fermavano a vedere chi era più bravo ad allungare il collo o si scambiavano vani colpi con le pinne. Avevano dei becchi pericolosamente aguzzi, ma preferivano combattere con ali innocue.
A St. Andrews l’attività ferveva soprattutto ai margini della colonia. Dato che una gran quantità di pinguini era intenta alla cova o alla muta, la colonia principale appariva straordinariamente calma. Osservandola dall’alto mi venne in mente Los Angeles vista da Griffith Park un fine settimana di primissima mattina. Una megalopoli assonnata di pinguini ritti in piedi. A pattugliare le grandi arterie erano i chioni, strani uccelli immacolati col corpo di piccione e i costumi da avvoltoio. Persino il suono straordinario emesso dai reali – un grido rauco e festoso in crescendo, che ricordava le cornamuse, le trombette di carnevale o il rumore simile al latrato di un cane che si sente su certi aerei, ma che in realtà non somigliava a nulla che avessi mai sentito – aveva un effetto rilassante provenendo da migliaia di pinguini. Nel ventesimo secolo gli esseri umani fecero un favore ai pinguini arrivando quasi a sterminare molte delle balene e delle foche con cui erano in competizione per il cibo. La popolazione dei pinguini crebbe e la Georgia del Sud recentemente è diventata un luogo ancor più ospitale, perché la rapida ritirata dei ghiacciai mette a loro disposizione terra adatta alla nidificazione. Ma i vantaggi arrecati dall’umanità ai pinguini potrebbero avere vita breve. Se il cambiamento climatico continua ad acidificare gli oceani l’acqua raggiungerà un pH tale da impedire agli invertebrati marini di sviluppare il guscio; uno di essi, il krill, costituisce la dieta principale di molte specie di pinguini. Il cambiamento climatico sta anche riducendo rapidamente i ghiacci che circondano la penisola antartica e forniscono una piattaforma per le alghe su cui il krill si nutre d’inverno e che lo hanno finora protetto dallo sfruttamento commerciale su larga scala. Navi officina delle dimensioni di superpetroliere potrebbero presto arrivare dalla Cina, dalla Norvegia, dalla Corea del Sud per aspirare il cibo da cui dipendono non solo i pinguini ma molte balene e foche.
Con il nome di krill si indicano dei crostacei delle dimensioni e del colore di un mignolo. Stimarne la presenza numerica in Antartide è difficile ma una cifra spesso citata, cinquecento milioni di tonnellate metriche, rendono la specie forse il massimo ricettacolo di biomassa animale del mondo. Purtroppo per i pinguini, molti paesi considerano il krill un buon alimento, sia per gli esseri umani (si dice abbia un gusto accettabile) e soprattutto per i pesci d’allevamento e il bestiame. Stando ai dati attuali, il pescato annuo del krill non raggiunge il mezzo milione di tonnellate, con la Norvegia al primo posto nella raccolta. La Cina ha però annunciato l’intenzione di portare il suo pescato a due milioni di tonnellate l’anno e ha iniziato a costruire navi idonee. Come ha spiegato il responsabile del Gruppo per lo sviluppo agricolo cinese, «il krill fornisce proteine di ottima qualità che possono essere trasformate in cibo e medicinali. L’Antartide è una stanza del tesoro per tutti gli esseri umani ed è opportuno che la Cina vada e ne abbia una parte».
L’ecosistema marino antartico è effettivamente il più ricco del mondo; è inoltre l’ultimo rimasto sostanzialmente intatto. Il suo utilizzo commerciale è monitorato e regolato, quantomeno formalmente, dalla Commissione per la conservazione delle risorse viventi marine antartiche. Ma le decisioni della commissione sono soggette al veto di ciascuno dei suoi venticinque membri e uno di essi, la Cina, ha un passato di ostruzionismo nei confronti della designazione di alcune grandi aree marine protette. Un altro, la Russia, ha mostrato di recente aperta intransigenza non solo ponendo il veto alla creazione di nuove aree protette, ma ponendo in discussione l’autorità stessa a stabilirle. Così il futuro del krill e con esso il futuro di molte specie di pinguini, dipende da incertezze moltiplicate da incertezze: quanto krill esiste in realtà, in che misura sia in grado di adeguarsi al cambiamento climatico, se possa essere pescato senza ridurre alla fame altra fauna, se la raccolta possa essere regolamentata, e se la cooperazione internazionale sull’Antartide sia in grado di reggere a fronte dei nuovi conflitti geopolitici. Non c’è incertezza sul fatto che le temperature globali, la popolazione globale e il fabbisogno globale di proteina animale crescono velocemente.
ALL’ORA DEI PASTI LA ORION mi ricordava inevitabilmente il sanatorio de La montagna incantata: la corsa tre volte al giorno alla sala mensa, l’ermetico isolamento dal mondo, i volti immutabili ai tavoli. Al posto di Frau Stöhr, che storpiava in «Erotica» l’Eroica di Beethoven c’era il sostenitore di Donald Trump con la moglie. C’era l’allegra coppia di alcolizzati. C’era la reumatologa olandese, il suo secondo marito reumatologo, la figlia reumatologa e il fidanzato reumatologo della figlia. C’erano quelle due o tre coppie che ogni volta che si saliva sugli Zodiac riuscivano sgomitando a essere i primi della fila. C’era l’uomo che per speciale concessione aveva portato con sé un apparecchio radio e passava la vacanza dentro la biblioteca della nave in cerca di contatti con altri radioamatori. C’erano gli australiani, che per lo più stavano per conto loro.
Conversando a tavola, chiedevo alle persone il perché del viaggio in Antartide. Appresi che molti erano semplicemente devoti alla Lindblad. Alcuni, durante un altro Lindblad, avevano sentito dire che il Lindblad in Antartide era il miglior Lindblad, fatta forse eccezione per il Lindblad nel Mare di Cortez. Una coppia molto simpatica, un medico e un’infermiera, Bob e Gigi, stavano festeggiando il venticinquesimo anniversario di matrimonio con un anno di ritardo. Un altro passeggero, un chimico in pensione, mi disse che aveva scelto l’Antartide solo perché era ormai a corto di posti in cui non fosse mai stato. Fui lieto che nessuno rispondesse per vedere l’Antartide prima che si sciolga. La sorpresa fu che per quasi tutto il viaggio né i membri dello staff né i passeggeri pronunciarono mai le parole “cambiamento climatico” a portata del mio orecchio.
Certo, saltavo molte delle conferenze tenute a bordo. Per dimostrare di essere un ornitologo duro e puro dovevo stare sul ponte di osservazione. L’ornitologo duro e puro resta tutto il giorno a mordere vento e salsedine, lo sguardo fisso nella nebbia o nella luce abbagliante, nella speranza di cogliere qualcosa di insolito. Anche quando l’intuito ti dice che là fuori non c’è nulla, il solo modo di esserne certo è di dedicare tempo all’osservazione di ogni briciolo di avifauna all’orizzonte, ogni singolo prione (potrebbe essere un prione tortora) che sfreccia tra le onde di colore identico, ogni singolo albatros errante (potrebbe essere un albatros reale) in dubbio se valga la pena seguire la scia della nave. In osservazione a volte ti viene nausea, spesso ti congeli, e quasi sempre ti annoi a morte. Dopo avere accumulato trenta ore contando un solo uccello marino degno di nota, una
lugensa brevirostris, lasciai perdere e mi dedicai alla più socievole pulsione di giocare a bridge.
Gli altri giocatori, Diana e Nancy e Jacq, venivano da Seattle e facevano parte di un book club che contava altri membri sulla nave. Feci amicizia con loro come con Chris e Ada. In una delle prime mani che giocammo feci uno scarto stupido e Diana, formidabile avvocato fallimentarista, ridendo di me, definì la mia giocata orribile. Mi piacque per questo. Mi piaceva il linguaggio sboccato al tavolo. Quando la mia compagna, Nancy, proprietaria di un concessionario di carrelli elevatori, era alle prese con il primo contratto di slam del viaggio e io sottolineai che il resto delle mani erano sue, sbottò con un «fammi fare il mio gioco, stronzo». Mi disse che andava inteso in senso affettuoso. Il terzo giocatore, Jacq, anche lui avvocato, mi raccontò che Nancy aveva scritto una pièce teatrale prendendo spunto dalla cena tenuta a casa di Diana il Giorno del ringraziamento, nel corso della quale il marito di Diana, gravemente malato, era morto nel letto in salotto. Jacq aveva l’unico tatuaggio che avessi visto addosso a un passeggero.
Come ne La montagna incantata i primi giorni della spedizione furono lunghi e memorabili, quelli successivi più simili a una massa confusa in accelerazione. Dopo la gratificazione dell’incontro con gli anthus (erano bellissimi e socievoli ) non mi interessava più visitare le basi dei balenieri abbandonate. Arrivati al quinto giorno in Georgia del Sud persino nella voce di Doug si avvertiva una nota di stanchezza nel proporre l’ennesima gita in kayak. Sembrava di sentire Vladimir e Estragon quando, quasi al termine di Godot, dopo aver esaurito ogni pensabile distrazione, decidono di mimare l’albero.
Verso la fine dell’ultimo giorno di viaggio, che avevo trascorso per lo più al tavolo da bridge, mentre fuori giravano centinaia di uccelli marini potenzialmente interessanti, scesi nel salone per una conferenza sul cambiamento climatico. La teneva l’australiano del drone, che si chiama Adam e ad ascoltarlo c’era meno della metà dei passeggeri. Mi chiesi come mai una conferenza così importante fosse stata relegata all’ultimo giorno. La spiegazione edificante fu che Lindblad, che si fa vanto della propria coscienza ambientalista, voleva che tornassimo a casa infervorati a fare di più per proteggere le meraviglie della natura di cui avevamo goduto.
L’appello di Adam in apertura suggeriva altre spiegazioni. «Il questionario di gradimento non è la sede adatta per esprimere le vostre convinzioni sul cambiamento climatico», disse con un risolino imbarazzato. «Ambasciator non porta pena». Passò a chiederci quanti di noi fossero del parere che il clima terrestre stesse cambiando. Tutti in sala alzarono la mano. E quanti di noi pensavano che questo fosse dovuto all’attività umana? Ancora una volta si levarono gran parte delle mani, tranne quella del sostenitore di Donald Trump e quella del radioamatore. Dalle ultime file giunse la voce burbera di Chris: «E quelli che non la considerano una questione opinabile?».
«Ottima domanda», disse Adam.
La sua relazione ripropose con enfasi le tesi del documentario
Una scomoda verità inclusa la “mazza da hockey”, il famoso grafico dell’aumento delle temperature, l’altrettanto famosa immagine dell’America mutilata della Florida dal futuro aumento del livello del mare. Ma il quadro di Adam era ancor più cupo di quello di Al Gore, perché il pianeta si sta riscaldando molto più velocemente di quanto anche i più pessimisti si aspettassero dieci anni fa. Adam citò la partenza dell’Iditarod senza neve, l’inverno maledettamente caldo in Alaska, la possibilità che il Polo Nord rimanga senza ghiaccio nell’estate del 2020. Osservò che mentre dieci anni fa si sapeva che l’ottantasette per cento dei ghiacciai della penisola antartica si stava ritirando, oggi si parla del cento per cento. Ma la sua riflessione più cupa riguardava il fatto che gli studiosi del clima, essendo scienziati, erano costretti a limitarsi a ipotesi ad alta probabilità statistica. Nell’elaborazione dei modelli delle future condizioni climatiche e nelle previsioni sull’aumento delle temperature devono sottostimare il fenomeno, prendendo come riferimento la temperatura raggiunta in più del novanta per cento dei casi, invece della temperatura media. Così lo scienziato che prevede con sicurezza un riscaldamento di cinque gradi (Celsius) alla fine del secolo, magari in privato, dopo qualche birra, confessa che in realtà si aspetta che sia di nove gradi.
Pensando in Fahrenheit – sedici gradi – provai pena per i pinguini. Ma poi, come spesso accade nei dibattiti sul cambiamento climatico quando dalla diagnosi si passa ai rimedi, il pessimismo divenne tragicomico. Seduti nel salone di una nave che consumava tredici litri di carburante al minuto ascoltavamo Adam esaltare i vantaggi del fare la spesa nei mercati a Km zero e del sostituire le lampadine a incandescenza con quelle a led. Ci disse anche che l’istruzione femminile universale avrebbe ridotto le nascite a livello globale e che eliminando le guerre si sarebbero liberate risorse economiche tali da poter convertire l’economia globale all’energia rinnovabile. Quindi chiese se ci fossero domande o commenti. Chi era scettico sulla responsabilità umana nel cambiamento climatico non aveva interesse a discutere, ma un sostenitore convinto di questa tesi si alzò per dire che amministrava molti condomini e aveva notato che gli inquilini che beneficiavano di sussidi statali tenevano la temperatura in casa troppo alta d’inverno e troppo bassa l’estate perché non pagavano le bollette e quindi, per combattere il cambiamento climatico, sarebbe stato opportuno addebitargliele. Al che una donna rispose pacata: «Penso che i super ricchi sprechino molto di più delle persone sotto sussidio». La discussione si interruppe subito dopo – dovevamo tutti fare i bagagli. Alle sei la sala tornò a riempirsi, di più questa volta, per l’evento clou della spedizione: la proiezione di una serie di diapositive cui i passeggeri erano stati invitati a contribuire con tre o quattro dei loro scatti migliori. L’istruttore di fotografia che teneva la presentazione si scusò in anticipo in caso qualcuno non avesse gradito i brani scelti come colonna sonora. La musica – Here Comes the Sun, Build Me Up Buttercup – di certo non era d’aiuto, ma tutta la proiezione fu deprimente. Avvertii quel senso di menomazione che mi trasmette sempre la nostra cultura dell’immagine: si può comprimere la vita in una sequenza fotografica riducendola a frammenti minuti quanto si vuole, anche molto ravvicinati, ma alla fine la percezione più forte che ne ho è di quello che manca. Era anche purtroppo palese che tre settimane di corso del National Geographic non avevano dato come risultato immagini di quella freschezza. E l’effetto cumulativo era tristemente inferiore alle ambizioni. Le diapositive intendevano cogliere un’avventura vissuta assieme, in comunità, come Shackleton e i suoi uomini. Ma ci mancavano il lungo inverno antartico, i mesi trascorsi a dividersi la carne di foca. Il rapporto verticale tra la Lindblad e i suoi clienti era stato troppo pressante per incoraggiarci a stringere legami orizzontali. Così ne venne fuori una presentazione che sembrava uno spot amatoriale per la Lindblad. Il contesto pretenzioso rovinò persino le immagini che avrebbero dovuto più starmi a cuore da fotografo amatoriale, quelle che fissano i volti amati. Quando mio fratello mi mostrò in privato la foto che aveva scattato di Chris e Ada seduti in gommone (Chris che faticava a togliersi del tutto il broncio, Ada col sorriso aperto), mi ricordai la gioia di averli trovati a bordo. Era una foto molto significativa – per me. Caricatela sul sito della Lindblad e perde tutto, scade a livello di spot.
Che senso aveva avuto il viaggio in Antartide? Scoprii che per me l’obiettivo era il contatto con i pinguini, lasciarmi travolgere dai paesaggi, stringere qualche nuova amicizia, aggiungere trentuno specie avicole alla mia lista e onorare la memoria di mio zio. Era sufficiente a giustificarne i costi in termini economici e di emissioni di CO2? Ditemelo voi. Ma la presentazione mi è stata utile di rimando, focalizzando la mia attenzione su tutti i minuti non fotografati in cui ero stato vivo durante il viaggio – quanto era meglio annoiarsi e avere freddo osservando gli uccelli rispetto a essere morto. Un vantaggio ulteriore emerse la mattina successiva, dopo che la Orion aveva ormeggiato a Ushuaia e Tom e io fummo lasciati liberi di girovagare da soli per le strade. Scoprii che tre settimane sulla Orion con le stesse facce ogni giorno davanti agli occhi mi facevano apprezzare intensamente qualunque volto non fosse stato a bordo, soprattutto quelli più giovani. Ero tentato di gettare le braccia al collo di tutti i giovani argentini che incontravo.
È vero che l’azione più efficace che la maggior parte degli esseri umani possono intraprendere singolarmente, non solo per combattere il cambiamento climatico, ma per conservare la biodiversità del pianeta, è rinunciare a procreare. Può darsi che nulla possa arrestare la logica della priorità dell’uomo: se le persone vogliono carne e c’è del krill a disposizione, si pescherà il krill. Può anche darsi che i pinguini, per la loro somiglianza ai bambini, ci portino a ragionare in termini diversi sulle specie poste a rischio dalla logica umana: anche loro sono figli nostri. Anche loro meritano le nostre cure.
Eppure immaginare un mondo senza giovani equivale a immaginare di vivere su una nave Lindblad per sempre. La mia madrina aveva vissuto una vita così dopo la morte della sua unica figlia. Ricordo il sorriso quasi folle con cui una volta mi confidò il valore in dollari delle sue porcellane Wedgwood. Ma Fran era pazza già prima che morisse Gail; era ossessionata dalla replica biologica di se stessa. La vita è precaria e la si può frantumare tenendola troppo stretta, oppure amarla, come l’amava il mio padrino. Walt perse la figlia, i suoi compagni d’arme, sua moglie e mia madre, ma non smise mai di improvvisare. Lo vedo al pianoforte, nel sud della Florida, lanciare larghi sorrisi mentre strimpella brani di vecchi musical e le vedove del suo condominio ballano. Anche in un mondo di persone che muoiono continuano a nascere nuovi amori.
©2016 Jonathan Franzen, first published in The New Yorker
(Traduzione di Emilia Benghi)