la Repubblica, 5 giugno 2016
Gli algoritmi sono i padroni del mondo, d’accordo, ma chi sono i padroni degli algoritmi?
Si sente dire (fiction, saggistica, articoli, chiacchiere) che gli algoritmi sono i padroni del mondo. Lo scrutano, lo classificano, lo vendono e lo comprano: la vera merce, oggi, siamo noi ogni volta che accendiamo un computer. D’accordo, ma chi sono i padroni degli algoritmi? In quali tasche finiscono i proventi sterminati della cernita algoritmica delle masse consumatrici? In che misura, a chi e in quali forme quella ricchezza viene redistribuita e crea benessere diffuso, al netto delle immani e ben pubblicizzate donazioni benefiche? Quanti posti di lavoro creano (a parità di fatturato) i padroni degli algoritmi rispetto ai “padroni del vapore” dell’evo industriale? E soprattutto: come mai, per quale imperscrutabile equivoco della storia, i padroni del vapore godevano, tra le masse, di una notevole impopolarità (si chiamava: lotta di classe) e i padroni degli algoritmi, al contrario, vivono custoditi da una nomea di genii virtuosi, di inventori provvidi e antropofili, ottimi per inaugurare anni accademici? Un’impressione: la politica tornerà a essere “identitaria”, e a muovere il mondo, solo quando metterà queste domande al centro del suo pensiero, come fecero gli economisti classici con salario, profitto e compagnia bella. Ovvero quando riuscirà a rendere nuovamente visibile (e comprensibile, e criticabile) la struttura della società e l’assetto del potere così come sono oggi. Fino ad allora, non è il caso di scaldarsi troppo: la politica si occupa solo di qualche marginale ritocco.