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 2016  giugno 04 Sabato calendario

«Non perdono le Br, non hanno mai chiesto scusa». Parla il figlio del magistrato Francesco Coco, ucciso quarant’anni fa

Due vigili e i tecnici del Comune guardano la scritta che deturpa il muro sotto la lapide, e si chiedono se sia meglio coprirla con una pennellata di bianco o di verde. «Mah, le scritte. Nel quartiere dove insegno (al conservatorio, ndr) ho deciso che una notte vado con un secchio di vernice, nascosto da un cappuccio e cancello un “W Hitler” che non si può vedere. Qui ne hanno fatte, letteralmente, di tutti i colori, si vede che in un modo o nell’altro la memoria è ancora viva». Sorride notando che né gli agenti, né gli impiegati scesi lungo la mattonata di salita Santa Brigida, lo riconoscono. «Stavolta anticipano la ricorrenza d’un giorno, ci sarò. A parte gli scherzi ho un ruolo istituzionale, da rappresentante dell’Aiviter (Associazione italiana vittime del terrorismo, ndr) e alla fine è giusto esporsi anche per chi non ha la forza, la voglia, il tempo di farlo. Certo, nei luoghi comuni io resto quello che non perdona, la testa di...».
Massimo Coco ripone in una borsa le prime pagine di quei giorni con il titolo a caratteri cubitali «Massacro», lo sguardo pacato e insieme fiero di chi ripete da sempre che nessuno gli ha mai chiesto scusa, mentre ciclicamente gli rinnovano l’immancabile quesito «Ha perdonato?» e l’invito a «voltare pagina». «Se per perdono intendiamo la rinuncia alla vendetta, dico di sì; se significa mettere da parte il rancore allora è ipocrisia. Il rancore è una cosa tanto intima da non poterla gestire politicamente, mentre una forma di perdono la garantisce già lo Stato, io la accetto e anzi la condivido: i permessi premio, la possibilità di scontare una parte della pena fuori dal carcere e in generale di rifarsi una vita. E sulle scuse vorrei aggiungere una cosa che finora non ho mai detto...».
Pausa, occhi meno polemici di quanto a tratti sia stato nell’ultimo decennio «Nel 2013, dopo la presentazione d’un libro, uno dei pretori d’assalto degli Anni 70 che con mio padre entrarono in fortissimo conflitto e in qualche modo contribuirono a delegittimarne l’immagine, si è avvicinato e ha pronunciato una frase che mi ha sorpreso: “Massimo guarda, io penso che forse in quegli anni noi abbiamo un po’ esagerato...”. Per me è stato importante». “Quel” pretore era Adriano Sansa, poi divenuto sindaco di Genova, che ha confermato l’incontro privato e la riflessione sulle asperità dei primi ’70, senza voler entrare nel dettagli della conversazione.
Mercoledì saranno quarant’anni dalle 13,30 dell’8 giugno 1976, quando il procuratore generale Francesco Coco fu assassinato dalle Brigate Rosse, mentre rientrava a casa insieme al brigadiere di polizia Giovanni Saponara e all’appuntato dei carabinieri Antioco Deiana che gli facevano da scorta. Le Br si assunsero la paternità della mattanza due ore dopo il suo compimento, dal tribunale di Torino dov’era in corso un processo: il motivo era la mancata scarcerazione – su cui Coco mise la firma – dei militanti della Banda XXII ottobre dopo la liberazione di Mario Sossi, giudice preso per tre mesi in ostaggio dai terroristi nel 1974.
Massimo da circa dieci anni ha rotto il silenzio e nel 2012 ha scritto un libro intitolato «Ricordare stanca», anche se ripercorrere quelle ore quest’anno ha un senso diverso, «i numeri tondi a volte rinfrescano le idee.... Ero a Pieve Ligure al mare con amici, ma incredibilmente mia madre seppe di quanto accaduto a pochi metri dal nostro appartamento, con la telefonata d’un parente dalla Sardegna, che aveva captato la notizia da qualche radioamatore. Certo se pensiamo che si trattò del primo omicidio compiuto dai brigatisti, non si può dire che i processi siano stati troppo efficaci (nessuno è mai stato condannato come esecutore materiale, ndr). E d’altronde basta ricordare che nel 1999 nemmeno si fece la commemorazione qui, nel punto della strage».
Qualche anno fa lo aveva cercato un partito di centrosinistra: «Il mediatore era un giornalista e mi disse: “È probabile che ti chiederanno se vuoi candidarti, nel caso cosa faresti?” Io voto, in modo eclettico, ma stop. Ho sempre rifiutato le etichette su mio papà – definito un conservatore da chi non sapeva che da giovane difese Enrico Berlinguer dall’accusa di propaganda antifascista – e non ne volevo certo per me. Tra l’altro diceva che un magistrato, secondo lui, nemmeno avrebbe dovuto votare. E poi più che in Parlamento ho capito che il posto migliore dove parlare sono le scuole».
Ripete di credere alla forza dell’informazione, molto meno all’«istituzionalizzazione» di quella stagione. «In Germania hanno fatto i musei sulla Stasi e il periodo del Muro? È una cosa diversa dagli Anni di piombo, qui non siamo ancora pronti per storicizzare, nessun Paese europeo ha vissuto un’esperienza del genere con il terrorismo politico, e di conseguenza nessuno ha ancora tanti protagonisti di quella stagione così presenti nella vita pubblica. Perciò sono sicuro che non abbia senso chiederci di voltare pagina: meglio accendere la lampada e quelle pagine non si voltano, ma si leggono e si rileggono fino a impararle davvero. Dico male?».