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 2016  giugno 06 Lunedì calendario

Nella palestra dove nacque il mito di Cassius Clay

Salire i gradini che portano all’ingresso della Gleason’s Gym dà l’impressione di fare un viaggio nella macchina del tempo. Muri scrostati, ringhiere arrugginite, e quando apri la porta manifesti e foto di un’altra era appesi alle pareti. Jake LaMotta, altrimenti noto come “Toro Scatenato”, portato in trionfo dopo il suo mondiale. E naturalmente Ali: «Questa palestra – dice orgoglioso il proprietario Bruce Silverglade – lo ha fatto diventare un mito, e in cambio lui ha rivoluzionato il mondo».
La Gleason’s Gym era stata fondata nel 1937 da un italiano, Peter Robert Gagliardi, nel lower Bronx. Aveva aperto al numero 434 di Westchester Avenue, nel distretto di “The Hub”. «Bob – racconta Bruce – era orgoglioso di essere italiano, e un sacco di pugili avevano la sua stessa origine. Basti pensare a LaMotta, che divenne il nostro primo campione mondiale, il primo di una serie che ormai ne conta 134. Il quartiere della palestra però era abitato soprattutto dagli irlandesi, e all’epoca gli italiani non erano molto popolari: il fascismo, Mussolini, l’alleanza coi nazisti e la paura della guerra imminente. Bob era un uomo pratico, e quindi decise di cambiare il suo nome legalmente in Gleason, per fingere di essere irlandese pure lui».
Nel 1963 bussò alla porta un ragazzo nero longilineo e veloce. Si chiamava Cassius Clay e si era messo in testa di battere il campione di pesi massimi Sonny Liston. «Gli allenatori tradizionali – racconta Bruce – erano molto diffidenti. Dicevano che Clay era troppo esile, e poi combatteva come un codardo: scappava davanti ai pugni. Quella era un’altra epoca. Sul ring si menava duro, frontalmente: non vinceva chi aveva più tecnica, ma chi resisteva meglio alle botte incassate. Un pugile lo identificavi subito dai segni sulla faccia, le ferite, i bozzi a cavolfiore. Clay però era bello, e voleva restare così. Quindi inventò uno stile completamente nuovo di fare la boxe. La Gleason’s Gym lo accettò, e Liston finì al tappeto».
Da allora in poi questo rapporto non si è mai interrotto. Clay, che nel frattempo era diventato Ali, aveva continuato ad allenarsi nella palestra anche quando si era trasferita dal Bronx a Manhattan. Gleason lo aveva appoggiato pure quando si era rifiutato di andare in Vietnam: «Gli altri – dice Bruce – parlavano contro la guerra, ma lui ha pagato le sue convinzioni giocandosi tre anni di carriera, in cui avrebbe guadagnato milioni di dollari. E invece di scappare in Canada, è rimasto qui, a sopportare le conseguenze della sua scelta». Il legame che ne era nato è rimasto indissolubile, e dopo la fine della sua carriera, quando la palestra si era trasferita a Brooklyn, Ali la visitava ogni volta che veniva a New York: «Lo conosco da 40 anni. Passava sempre qui da noi e si fermava a parlare con tutti gli atleti. Certe volte veniva per i servizi fotografici che finivano sui giornali».
Bruce dice che un altro così non esiste: «Ci sono atleti diventati molto popolari, tipo Michael Jordan, ma uno come Ali è unico. È unico dal punto di vista sportivo, perché magari i ragazzini che vengono oggi in palestra non lo conoscono, ma chiedono tutti di imparare a combattere come lui. Non ho mai sentito nessuno che aspira a diventare Jake LaMotta, Sugar Ray Robinson, o anche Mike Tyson. Tutti invece vogliono danzare come una farfalla e pungere come un’ape. Ma Ali è unico anche dal punto di vista sociale, perché ha usato la propria popolarità come una piattaforma per diffondere le sue idee. È arrivato sulla scena nel pieno della battaglia per i diritti civili, la guerra in Vietnam, un’epoca di grande trasformazione per l’America e il mondo. Sarà molto difficile che si ripeta un simile allineamento dei pianeti, con tanti problemi sociali che esplodono tutti insieme, e una personalità così forte per affrontarli».
Elijah King è uno dei ragazzini che stamattina sono venuti ad allenarsi con Silverglade: «Sono felice – dice mentre allaccia i guantoni – di essere stato vivo quando c’era anche Ali, e sono disperato che adesso non ci sia più. Per uno come me, un nero del ghetto, è stato l’ispirazione della vita. Ogni volta che ho una difficoltà, ogni volta che mi sento scoraggiato, penso a lui e ritrovo la forza. Mi dico: se un ragazzino cresciuto nel Kentucky più razzista è riuscito a cambiare il mondo, perché non dovrei farcela pure io?». È una questione che va molto oltre la boxe: «Io spero di diventare un campione, chiaro, ma capisco che non tutti possono avere le qualità atletiche di Ali. Tutti, però, dobbiamo avere la sua tenacia, quando si tratta di fare a pugni con la vita».
Bruce sorride e fa un cenno di approvazione con la testa: «Vedi? Cosa ti avevo detto?». In giro, però, raccontano che questo vostro mondo sta finendo. La vogliono chiudere, la boxe. «Fesserie. Il pugilato non è mai stato così popolare. All’epoca di Ali noi accettavamo solo combattenti, e maschi. Ora abbiamo donne, bambini, banchieri, giornalisti: tutti vogliono salire sul ring. Ci manca un grande campione come Ali, questo è vero, per ispirare la gente. Ma nascerà, e allora sarete costretti a rimangiarvi tutte le critiche e le stupidaggini che avete detto».