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 2016  giugno 06 Lunedì calendario

I test scientifici sono una frode? Una polemica basata sui numeri

Un articolo di Monya Baker pubblicato il 26 maggio su Nature ha fatto diventare un rombo quello che prima era un sussurro. Su 1.576 scienziati intervistati, più del 70 per cento dice di avere difficoltà nel riprodurre risultati di altri ricercatori. Uno scienziato su due (52%) ritiene che la riproducibilità degli esperimenti stia attraversando una «crisi significativa», il 38% una crisi parziale, solo il 7% afferma che non c’è crisi, il 3% non sa rispondere. Il campione di Nature comprende 703 biologi, 106 chimici, 95 scienziati della Terra e dell’ambiente, 203 medici, 236 fisici e ingegneri, 233 ricercatori di altre discipline.
La mancata riproduzione del risultato di un esperimento può dipendere da un errore in buona fede. In questo caso, ben venga. La scienza procede così. Ma la frode non è da escludere. Nel libro Cattivi scienziati Enrico Bucci, estrapolando dati statistici, arriva a una conclusione inquietante: il 15 per cento delle pubblicazioni scientifiche nasconderebbe una frode più o meno grave. I ricercatori nel mondo oggi sono dieci milioni: i disonesti sarebbero qualcosa come 1.260.000. Il trattamento delle immagini con software tipo Photoshop è la tecnica più usata, l’oncologia la disciplina nella quale le pubblicazioni truccate risultano più numerose. Bucci, che viene dalla ricerca e quindi conosce il mestiere, ha elaborato un software per smascherare la manipolazione delle immagini. L’Eurobarometro dice che due cittadini su tre dell’Unione hanno fiducia nella scienza. Non dissipiamo questo capitale di credibilità e di razionalità.
Nella crisi della riproducibilità dei risultati sperimentali c’è poi un altro aspetto più sottile ed è la costosissima complessità degli strumenti di ricerca più avanzati. Gli esperimenti – un corpo che cade, un pendolo che oscilla – sono domande rivolte alla natura. La risposta non dipende da chi pone la domanda. Altri scienziati, con lo stesso esperimento troveranno la stessa risposta. Da quando Galileo fondò il metodo scientifico, la riproducibilità degli esperimenti da parte di scienziati indipendenti è diventata la carta costituzionale della ricerca. Ma in termini galileiani che cosa è davvero riproducibile nella scienza contemporanea?
Tra l’oggetto osservato, l’osservatore e il risultato dell’osservazione si interpone un numero crescente di mediazioni. Galileo con il suo piccolo cannocchiale vedeva i satelliti di Giove e, pur negandolo, li vedevano i suoi colleghi aristotelici. Oggi gli scienziati «vedono» il bosone di Higgs con un acceleratore di particelle lungo 27 chilometri discriminando la particella cercata tra miliardi di altri eventi, e di Lhc ce n’è uno solo, sia pure attrezzato con esperimenti diversi che danno risultati convergenti. Vedono il bagliore residuo del Big Bang con strumenti in orbita che captano nel cielo differenze di temperatura di centomillesimi di grado. Vedono onde gravitazionali che deformano un apparato lungo 4 chilometri di un millesimo del diametro di un protone, che a sua volta misura un milionesimo di miliardesimo di metro. Delle onde gravitazionali c’è finora una sola osservazione con le antenne americane: è essenziale che entri presto in misura l’antenna europea (italo-francese, per la precisione) vicino a Pisa. Esperimenti su fenomeni presumibilmente rarissimi attribuiti alla presunta materia oscura danno risultati diversi in laboratori diversi. Teorie della gravità quantistica come quella delle stringhe sono lontane da possibili prove sperimentali. Dal cannocchiale di Galileo ad oggi gli strumenti sono enormemente cambiati ma usiamo ancora ingenuamente la parola «vedere». Forse è lo statuto scientifico di questo verbo ad esigere un aggiornamento.