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 2016  giugno 06 Lunedì calendario

Le lettere inedite di Oriana Fallaci

«Sono stata bombardata come la città di Hanoi: per nove giorni… ogni bomba una brutta notizia, una provocazione, una vendetta, un coltello nel mio cuore e nel mio cervello». Nel 1976, poco dopo i funerali di Alekos Panagulis, Oriana Fallaci scrive all’amico regista Jules Dassin, in replica a una proposta, ritenuta del tutto inopportuna, di fare un film sul suo grande amore, morto in un sospetto incidente stradale dopo essere stato l’emblema della resistenza contro la dittatura dei colonnelli greci. Il bombardamento cui allude Oriana era dovuto all’ostilità della famiglia di Panagulis (che non aveva mai accettato la relazione anti convenzionale tra i due) manifestatasi apertamente in quei giorni dell’immenso dolore in cui Oriana confessa, tra l’altro, nelle stesse righe, di essere stata a un passo dal suicidio.
C’è in quella missiva il crocevia esistenziale della grande giornalista e scrittrice. Dove si intrecciano e si amalgamano orgoglio professionale e passione sentimentale, principi nobili, coraggiosi e fragilità dettate dalla ricerca di un conforto. Sentimenti che hanno segnato la vita di Oriana e che emergono in modo straordinario in La paura è un peccato, una raccolta di 120 lettere, quasi tutte inedite, curata dal nipote Edoardo Perazzi, in uscita per Rizzoli nel decennale della morte. Già il titolo è un manifesto dell’animo fallaciano. Quella frase compare (con molti punti esclamativi) sul fronte di una cartelletta in cui lei aveva conservato alcune minute. Riporta a un’altra frase («Una ragazzina non deve piangere!») che il padre antifascista le disse (seguita da un ceffone) quando lei, staffetta partigiana quattordicenne, ebbe un momento di debolezza. Frase che forgiò indelebilmente il suo carattere.
Eppure la giornalista con l’elmetto che seguiva in prima linea la guerra in Vietnam, la penna indignata e rabbiosa che si scagliò contro l’Islam e la debolezza dell’Occidente all’indomani dell’11 settembre, era una donna che sapeva anche soffrire, in modo talvolta straziante, per amore. Amore dei propri uomini, della propria famiglia, della propria città. Colpisce, per esempio, la descrizione che fa a un’amica della sua Firenze visitata nel 1966, un mese dopo la catastrofica alluvione. «...Non esiste più il lungarno, non esiste la strada, capisci, non esistono più le case. Sono rimasti solo i piani superiori... come se una mano in vena di macabri scherzi avesse portato via una ditata di torta da un piatto...». Un racconto che ha la stessa forza immaginifica degli aerei che si infilano nelle Torri gemelle come coltelli in panetti di burro, descritti nell’incipit de La rabbia e l’orgoglio. In un’altra lettera parla del suo cagnolino York, tanto voluto e amato, che è costretta a lasciare alla mamma quando si trasferisce a New York. «Ci baciammo, piangemmo, ci facemmo promesse. Ma non appena l’aereo decollò, mi sentii così libera, così leggera... non fu difficile mettere fine alla commedia e rendermi conto che l’ultima cosa per cui ero fatta era vivere con qualcuno: uomo, bambino, cane».
Eppure a François Pelou, il corrispondente della «France Press» a Saigon che fu l’altra sua grande love story, si rivolge con romanticismo: «Questa volta sei tu che parti... saranno inutili le mie mattine, perché non ci sarai tu... conservo nella mia bocca un tuo chewingum e lo assaporo come fosse un tuo bacio». Già in seguito all’intervista, poi pubblicata sull’«Europeo» subito dopo la scarcerazione, a Panagulis dice: «Voglio ringraziarti di esistere, di essere rimasto vivo...». Lo avverte che «anche l’equilibrio più forte, l’intelligenza più splendida, hanno bisogno di luce, di spazio, di amore. Altrimenti appassiscono come un albero privo d’acqua... Spero che tu mi permetta di darti quell’acqua». Più avanti, preoccupata perché Alekos, così ispirato nella poesia, non si applica nella stesura della sua autobiografia (la vita di Panagulis diventerà poi nelle mani di Oriana il bestseller Un uomo ), gli spiega le dure leggi dello scrivere. «La prosa non è un urlo. La prosa è una disciplina».
Ci sono le missive intense a Pasolini che aveva odiato la sua Lettera a un bambino mai nato e quelle affettuose a Ingrid Bergman e a sua figlia Isabella. Ci sono le parole di fuoco a Kissinger con cui ebbe uno scontro quando pubblicò la sua intervista e quelle furenti a Fidel Castro che corteggiò per molti anni e che alla fine non le concesse udienza. C’è l’appassionata corrispondenza con Pietro Nenni, tra dibattito politico e fatti privati. Franchezza con i potenti, affetto (anche quando si sente ferita) per le persone più intime. Un viaggio nell’animo della Fallaci che è anche una lezione di cura letteraria: quella prosa che ha rapito per ricchezza e passione generazioni di lettori si ritrova intatta in questi scritti personali da divorare come i suoi libri.
L’ultima lettera è indirizzata a monsignor Fisichella con cui lei, «atea cristiana», strinse un profondo rapporto negli anni finali della malattia. «Vieni più presto che puoi. Io ti aspetto come ne La Buona Terra di Pearl Buck i contadini cinesi aspettano la pioggia in agosto...». Bisognava «approfondire il discorso sull’incontro che ha un senso perché è stato pianificato da Dio, e guai a non viverlo con l’intensità e la coerenza di cui siamo capaci (cosa di cui sono assolutamente convinta)». Anche nell’ora estrema, Oriana pretendeva, per iscritto, l’ultima parola.