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 2016  giugno 06 Lunedì calendario

La paura che la tecnologia distrugga posti di lavoro è del tutto infondata. E qui si spiega perché

Cominciamo con un test. Il brano che segue è stato pubblicato: A) nel 1961; B) nel 1987; C) la settimana scorsa? «Il numero di posti di lavoro persi a causa di macchine più efficienti è solo una parte del problema. Il maggior timore degli esperti è che l’automazione possa impedire all’economia di produrre nuovi posti di lavoro in quantità sufficienti. In passato, i nuovi settori assumevano molte più persone di quelle che perdevano il lavoro nelle imprese costrette a chiudere perché non riuscivano a competere con le nuove tecnologie. Oggi non è più così sicuro. I nuovi settori offrono, comparativamente, meno posti per lavoratori non qualificati o sottoqualificati, proprio quella categoria di lavoratori più penalizzata dall’automazione».
La risposta corretta è la A). La citazione è tratta da un articolo della rivista Time del febbraio di quell’anno. Ma avrebbe potuto essere pubblicato anche la settimana scorsa: o nel 1970, nel 1987, nel 1993, in qualunque momento degli ultimi cinquant’anni. La preoccupazione per le tecnologie che distruggono posti di lavoro è diventata cronica. E – finora – infondata. Le nuove tecnologie hanno consentito la comparsa di nuovi settori che hanno creato più impieghi di quelli distrutti dalla tecnologia, e hanno accresciuto tanto la produttività quanto i redditi dei lavoratori. Lo aveva pronosticato già nel 1942 l’economista Joseph Schumpeter, che definì questo fenomeno «distruzione creativa». Secondo lui, «nell’economia avviene un processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendola e creandone una nuova».
E così è stato. Finora. Alcuni sono convinti che “stavolta è diverso” e che la distruzione di posti di lavoro prodotta dai rivoluzionari cambiamenti tecnologici non abbia precedenti per dimensioni e rapidità. La loro opinione è che i nuovi settori e i nuovi lavori che sicuramente emergeranno non arriveranno in tempo e non saranno sufficienti per garantire un impiego e un salario dignitoso ai milioni di lavoratori soppiantati dalle nuove tecnologie. Nelle ultime settimane ho avuto l’occasione di visitare diversi centri di innovazione e di conversare con alcuni degli esponenti più in vista a livello mondiale nel campo delle tecnologie informatiche e della robotica. Come sempre, in questo ambiente si respira un ottimismo contagioso. Però ho trovato anche molta preoccupazione per l’impatto che avranno le nuove tecnologie e molti dubbi sulla capacità della società, dell’economia e della politica di adattarsi a esse.
Il capo di una famosa azienda tecnologica, che mi ha chiesto di non divulgare il suo nome, mi ha detto: «Presto lanceremo sul mercato un robot in grado di svolgere molti dei compiti che ora vengono assegnati a persone con un livello di istruzione da scuola secondaria o inferiore. Solo il robot costerà 20.000 dollari. E non siamo gli unici: i nostri concorrenti, in varie parti del mondo, stanno lavorando su cose simili. Quando questi robot economici, affidabili ed efficienti si diffonderanno, non so proprio quali lavori si potrebbero offrire a chi non possiede abilità e competenze superiori a quelle che si imparano al liceo. Però penso anche che questa rivoluzione tecnologica sia inarrestabile. Non so quale sia la soluzione».
Per fare un altro esempio, Uber ha annunciato di aver avviato la sperimentazione di automobili senza conducente. E non soltanto Uber. Google, la Mercedes-Benz, la General Motors, la Toyota e la Tesla sono solo alcune delle decine di imprese che stanno investendo in questa tecnologia. Le auto senza guidatore sono inevitabili come il robot da 20.000 dollari.
A questo proposito, Andy Stern, ex presidente del sindacato americano Seiu, ha detto che la diffusione dei veicoli senza conducente distruggerebbe milioni di posti di lavoro. «Negli Stati Uniti ci sono tre milioni e mezzo di camionisti, c’è il rischio che avvenga il più grande sconvolgimento occupazionale nella storia dell’umanità», dichiara Stern.
Marc Andreessen, uno dei più rispettati investitori della Silicon Valley e fondatore di varie imprese, fra cui Netscape, ha un’opinione drasticamente diversa e molto più ottimistica. Secondo lui, «i robot non produrranno disoccupazione, al contrario libereranno la nostra creatività. Sostenere che un’enorme quantità di persone non avrà lavoro perché non avremo niente da offrire loro significa scommettere contro la creatività dell’essere umano. E a me, quando ho scommesso sulla creatività dell’essere umano, è sempre andata bene».
Andreessen ha ragione. Ma c’è urgente bisogno di applicare tutta la nostra creatività per rendere meno traumatica questa transizione. Come fare per garantire un certo livello di reddito a tutti coloro che subiscono le conseguenze negative di questa rivoluzione deve diventare un elemento costante in tutte le discussioni sulle meravigliose potenzialità delle nuove tecnologie.
(Traduzione di Fabio Galimberti)