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 2016  giugno 05 Domenica calendario

Cassius Clay, Roma ’60 e l’Italia

«Bello bambino». Nel 1960, il diciottenne Cassius Clay trascorre a Roma quasi un mese, vince l’oro nel torneo olimpico dei mediomassimi, viene soprannominato «il sindaco del Villaggio Olimpico» perché attacca bottone con tutto e con tutti, ci prova (senza successo) con la connazionale Wilma Rudolph. Di quei giorni italiani, però, gli restano incise nei pensieri soprattutto due parole: «Bello bambino». Le pronuncia simpaticamente una signora romana, quando lo vede passare a piazza Navona. Le ripeterà Clay, diventato Ali, sempre più ammalato, 39 anni dopo, tornando per l’ultima volta a Roma e ricordando con tenerezza i giorni dei Giochi.
VILLAGGIO E PALAZZO Ma da un «bello bambino» all’altro, Ali ha vissuto tanta Italia. Roma è il biglietto da visita esibito al mondo, ma anche la fine dell’innocenza. Il razzismo è una bestia che ha conosciuto, ma non ancora sfidato. Lo capisci dal sorriso un po’ ingenuo con cui si fa immortalare al Villaggio Olimpico nella piazza oggi intitolata a Jan Palach. Ma c’è un’altra immagine che colpisce: lui sul podio, con i suoi 187 centimetri e 80 chili resi piccoli piccoli dalle dimensioni del Palaeur. Il tetto del mondo sembra lontano, come il soffitto disegnato da Nervi: ma ha una strepitosa voglia di arrampicarsi.
WILMA E FLOYD Il Clay di Roma è ancora un ragazzino. Proprio la Rudolph, pluriolimpionica della velocità, racconterà più tardi che l’allora Cassius le raccontò di «dormire con la medaglia d’oro al collo» tanto era l’orgoglio per averla conquistata. La superiorità della sua boxe saltellante e veloce fu schiacciante. Forse un solo incontro, ma fuori dal ring, mise in crisi quel suo stato d’animo tutto fuochi d’artificio: Floyd Patterson, allora campione mondiale dei massimi, gli strinse la mano senza dargli troppa confidenza.
CON WOJTYLA Poi venne il titolo mondiale, perduto per il no alla guerra, il ritorno sul ring. Nel 1971, è di nuovo in Italia: più che match sono esibizioni con i suoi sparring partner. Comincia a Genova, combatte pure a Milano, ritorna sul ring del Palaeur: ma non sono cose serie. Sarebbe pronto pure per «Canzonissima», ma lui ha fretta, ciao Italia. Ci mette nove anni per tornare, promessa rispettata al suo amico Gianni Minà che presenta il suo film al festival del cinema di Saint Vincent. Ali passa per Roma e chiede a Rino Tommasi della «Gazzetta», di organizzargli un mini tour turistico. «Non posso non vedere il Colosseo e il Vaticano! Un giorno vorrei dare un bacio al Papa». Detto fatto: tre anni dopo ecco Ali con Gianni Minà in Vaticano, e papa Wojtyla che cambia agenda per incontrarlo.
LA PACE IN SICILIA Ali torna a Milano nel ‘91, la malattia l’ha ormai aggredito. É come se la storia e la medicina avessero cominciato a fare a botte sul ring della sua vita. La «Gazzetta» lo invita a pranzo, il Parkinson non gli ha ancora rubato tutte le parole. «Le manca la boxe?». «No, sono io che manco a lei». L’ultima Italia è in Sicilia. 1999, Bruno Ficili, docente di Siracusa, specializzato in missioni di pace, mette d’accordo i leader dei gruppi armati in guerra in Burundi per provare a portarli sulla strada della pace. E convince Ali a scendere a Siracusa per mettere anche la sua firma su quell’accordo.
«DOV’É LA MOSCHEA?» Lui è ormai senza parole, ma il suo corpo spremuto dalla malattia riesce ancora a comunicare. Eccolo a Palazzo Chigi fare il prestigiatore facendo sparire nel nulla un fazzoletto. Prima di andare a Roma, da D’Alema, Veltroni e Petrucci (che gli consegna una copia della medaglia d’oro di Roma ‘60 perduta in segno di protesta contro il razzismo), c’è un’altra scena che colpisce. Ali è nella piazza di Comiso, l’hanno appena fatto cittadino onorario, sta infilandosi in macchina per raggiungere l’aeroporto. Si ferma, come rapito da qualcosa, avvicina un ragazzo tunisino e chiede: «Dov’è la moschea?». Taibir indica una direzione e allora Ali chiede un attimo di pazienza alla moglie Lonnie: entra nel piccolo locale che funziona da centro religioso. Quando esce, il gruppetto di ragazzi immigrati è felice e orgoglioso. Quasi come lui, quel giorno a Roma, con l’oro da «bello bambino» al collo.