La Stampa, 5 giugno 2016
Suso a Lele, l’Italia del dopoguerra nelle lettere della signora del cinema
Un treno sulla tratta Milano-Roma nel piovoso 18 agosto 1946: il paesaggio fuori è quello dell’Italia postbellica, non più fascista e dal 2 giugno repubblicana: un paese risollevato nel morale seppur afflitto da mille grane – acqua luce e gas a singhiozzo, mercato nero, trasporti precari; a rischio di guerra civile, ma vitale e voglioso di ricominciare. Quella sera, installata con i suoi due bambini in una cabina del vagone letto, una giovane passeggera viaggia verso la capitale, in senso contrario al suo cuore rimasto sulle montagne dei Grigioni da cui è partita. Chi è? A chi scrive fitto su un foglietto arrangiato nella luce probabilmente fioca dello scompartimento?
La sconosciuta si chiama Suso Cecchi d’Amico, futura gran signora del cinema italiano, e sta tornando da Arosa, amena località svizzera a 18OO metri di quota dove il marito Fedele (detto Lele) d’Amico, sublime musicologo, è ricoverato da troppo tempo per curare una tubercolosi in fase avanzata. Sono trascorsi neppure due giorni dall’addio, e già «moglie» sente l’urgenza di ristabilire con lui – «amore mio caro» «ponci» «bucintoro»- quel contatto epistolare, che nel corso di sedici interminabile mesi di separazione si rivelerà essenziale a riempire il vuoto della distanza, a coprire lo strazio del distacco, a fugare paure e presagi foschi (che il male è grave).
Come un diario
Fra il dicembre 1945 e il marzo 1947, Suso invierà a Lele oltre trecento missive, pubblicate ora da Bompiani nel volume Suso a Lele. Lettere (pp. 600, € 22): uno straordinario epistolario di cui, nell’introduzione, il figlio Masolino, curatore della raccolta con la sorella Silvia, sottolinea giustamente il carattere di diario. Per confortare Lele sofferente e confinato a letto, per fargli sentire viva la presenza dei cari, per avvolgerlo nella coperta calda del suo amore straripante, Suso lo riempie di coccole verbali e di succosi aneddoti: i picci che crescono adorabili, i suoceroni, lo zio Carlo, i fratelli Marcello e Sandro; le avventure dello svaporato «terzo figlio» Nino Rota, ricorrente e graditissimo ospite nella loro casa di vntore; l’affettuosa amicizia di Adriano Ossicini, compagno di clandestinità di Lele durante la resistenza; le visite di Giancarlo Menotti e Sam Barber in andirivieni fra Usa e Italia. Ma Suso provvede anche a tenere informato il suo «ponci» sulla vita culturale romana fra gossip, concerti, eventi teatrali, dimostrando allegra spregiudicatezza di giudizio persino nei confronti degli spettacoli del «conte» (Visconti); e basterebbero le umoristiche cronache di certe serate mondano-intellettuali, le acute osservazioni su personaggi quali Moravia, Piovene, Soldati, oppure l’accorato resoconto della veglia al capezzale di Alfredo Casella, a rendere il libro imperdibile.
Suso si definisce pasticciona, si colpevolizza di scrivere cose poco interessanti, sbaglia le date, trabocca di un desiderio di ricongiungimento che sublima in parole ardenti, fermamente convinta che il quartetto degli affetti (Lele e i cicini) è l’unica cosa che conta, il motore di tutto.
Il lavoro
Però gli sforzi per mantenere in piedi la baracca domestica con i prezzi che salgono e i soldi che mancano, hanno creato in lei nuove consapevolezze: abbracciato all’inizio per motivi alimentari, Suso sta scoprendo con sorpresa che il lavoro di sceneggiatrice lo sa fare e le piace, la diverte, la gratifica, tanto che da un certo momento i racconti di cinema prendono il sopravvento sul resto. Le pagine si affollano dei nomi dei vari Castellani, Flaiano, Ponti, Fabrizi, Magnani, Tellini: al ritorno «ponci» troverà l’innamoratissima moglie un po’ diversa, più autonoma, e il loro equilibrio di coppia dovrà ripartire da lì.
Presenza assenza
Lele non se ne sarà stupito: emerge soprattutto il ritratto di un grande matrimonio da questo epistolario a una voce sola. Spesso Suso dà l’impressione di parlare al marito come se parlasse a se stessa, affidandogli con tranquillità i suoi pensieri più reconditi e pazzi in una sorta di flusso di coscienza di sconcertante sincerità: il che da conto di un rapporto di incredibile complicità; e insieme fa emergere la statura morale e intellettuale di un interlocutore che non è affatto assente dal carteggio, a dispetto di non essere rappresentato da alcuna lettera.