Il Messaggero, 5 giugno 2016
Quel gancio a Foreman nel match del secolo
Quando il 30 ottobre 1974 volli riunirmi con alcuni amici – poco più che ventenni – a vedere in Tv lo storico match a Kinshasa, Congo (allora Zaire) tra George Foreman, campione dei pesi massimi, e lo sfidante Mohammed Ali, grande campione in declino, non pensavo che avrei scoperto il Tao della boxe! In che senso? La tattica seguita da Muhammad Ali e suggerita dall’allenatore Angelo Dundee consisteva – appunto taoisticamente – in un sapiente ritirarsi, nell’indietreggiare, nel sottrarsi ad un avversario fisicamente più potente (fino ad allora imbattuto e dato per superfavorito). La sua fu la tecnica del cosiddetto dope-a-role (frase idiomatica: «prendere a laccio l’imbecille», poi usata anche per il poker ed altro), ovvero la guardia ben chiusa, appoggiato alle corde del ring, fingendo di reste chiuso nell’angolo, pronto a far scaricare a Foreman i suoi possenti colpi di maglio (che però colpivano solo il tronco e le braccia) e così mandandoli a vuoto, e sfiancandolo (in verità anche con i reiterati insulti verbali).
L’OTTAVO ROUND Ali, formidabile incassatore, in un certo senso non perse mai il controllo fisico e mentale dell’incontro, fino a quel fatidico gancio sinistro che inopinatamente mandò al tappeto Foreman all’ottavo round. E fu proprio questo insegnamento – credo – a conquistare ed educare una intera generazione, ancor più delle sue spavalderie esibizionistiche, dell’impegno civile e dell’orgoglio razziale dichiarato, delle sbruffonerie e delle roboanti battute ad effetto, di colui che un tempo si chiamava Cassius Clay, quando vince la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma nel 1960, nome poi ripudiato perché da schiavo al tempo dell’adesione ai Mussulmani Neri, nel 1964. Aggiungo solo che il match di Kinshasa avvenne alla fine di un anno per molti versi straordinario, in cui tra le altre cose c’era stata la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, anche quello un evento in cui la vittoria fu ottenuta senza un vero scontro frontale. Lo stile di Ali sul ring si identificava con un nuovo modo di boxare, quasi una segreta infiltrazione di un peso leggero tra i pesi massimi. Ma su questo lascio volentieri la parola ai tecnici. Ma come è nata l’idea dell’incontro del secolo e perché proprio nel lontano Zaire? Alla sua origine troviamo un singolare intreccio di motivi nobili e di calcoli di opportunità politica, di scelte anche anticonformiste, business e bassa propaganda. Il feroce dittatore Mobutu, andato al potere nel 1965, aveva trasformato il Congo Belga in Zaire nel 1971, imponendo il costume tradizionale e i nomi africani (non più cristiani) all’intera popolazione. In quel momento aveva bisogno di un evento mediatico capace di rilanciare il prestigio della neonata nazione e di rafforzare il proprio potere personale.
CINQUE MILIONICosì attraverso il manager cappellone Don King promise a Foreman e Ali cinque milioni di dollari per ciascuno, prelevati dai suoi ricchi forzieri e mise in piedi una manifestazione imponente, seguita in diretta da oltre cento televisioni su tutto il globo (solo per permettere la visione in diretta l’incontro venne programmato per le 5, ora locale), condita di retorica terzomondista e di un folklore colorito e strumentale. I due pugili si trasferirono in Zaire già nell’estate, per allenarsi e abituarsi al clima tropicale. Il match doveva tenersi alla fine di settembre ma Foreman si ferì in allenamento e tutto fu rimandato di un mese. Di quell’avvenimento è stato detto e scritto moltissimo. Il documento più completo resta il film di Leo Gast Quando eravamo re, del 1996, che ne ricostruisce meticolosamente tutte le dinamiche psicologiche e le implicazioni simboliche, e che si allarga a riprendere il concerto di musica nera che precedette l’incontro (con James Brown, Miriam Makeba e B.B.King). Innumerevoli i reportage, articoli, saggi, resoconti, etc., tra i quali spicca certamente La sfida del grande Norman Mailer, ma anche i contributi di George Plimpton, direttore della Paris Review, e intervistato insieme a Mailer nel film. Eppure si potrebbe osservare che Mohammed Ali supera tutti i suoi cronisti e biografi proprio sul piano narrativo! È anzitutto lui l’ineguagliabile romanziere che – anche involontariamente in sintonia con la macchina propagandistica di Mobutu – ha saputo trasformare un incontro di boxe, per quanto decisivo, in una splendida epopea, in una lotta tra il bene e il male, tra la rivolta e il conformismo, tra la libertà e una assuefatta integrazione, tra un combattivo seguace di Malcom X (di cui era stato amico) e un nipotino dello Zio Tom, tra il rumoroso portavoce dei diritti dei neri e un atleta pure dignitosissimo ma opaco, indifferente a qualsiasi problematica politica. Tutte le cronache romanzate impallidiscono di fronte alla luminosa evidenza fisica e alla capacità mitopoietica di Ali, acclamato da 100.000 spettatori in piedi nello stadio che per tutto il tempo lo avevano incitato gridando lo slogan politicamente scorrettissimo Ali mobayè (Ali ammazzalo!). Ed è paradossale che proprio Mohammed Ali, un personaggio sempre disturbante, iperaggressivo, sfrontato, etc. abbia vinto infine il suo più importante match sportivo come un grande Eroe della Ritirata, come un intrepido Cavaliere Passivo.