5 giugno 2016
In morte di Muhammad Ali
Claudio Colombo per il Corriere della SeraGli eroi dello sport non muoiono, caso mai si assentano. Ma c’è qualcosa di diverso, e di più lancinante, nella scomparsa di Muhammad Ali, che ha concluso la sua parabola terrena in un ospedale di Phoenix, in Arizona, piegato a 74 anni dal morbo di Parkinson che lo aveva aggredito da oltre tre decenni. Ali valeva doppio: come sportivo e come uomo. Il primo, che pure non fu invincibile nella sua grandezza, ha rappresentato qualcosa di unico e di irripetibile nel mondo del pugilato; il secondo, diretta conseguenza della fama acquisita sul ring, dimostra come si possa mettere a disposizione del prossimo (collettività, società, consesso civile) la forza libera di scelte scomode, anche se penalizzanti. Rivoluzionario, Ali, lo è stato in tutto: nelle parole, nei gesti e nei comportamenti. Glielo riconosce (oggi) l’America; lo applaude, anche, il resto del mondo, come si evince dalla valanga di attestazioni provenienti da ogni angolo del pianeta. Ali era ricoverato da tre giorni in ospedale per problemi respiratori: sembrava una cosa di poco conto, poi tutto è precipitato. Da molti anni l’ex campione dei pesi massimi filtrava il suo pensiero attraverso la voce di Lonnie, la quarta moglie, approdo felice e tranquillo dopo una vita familiare piena di onde e tempeste. Ali aveva sempre difeso il suo passato, a protezione della disciplina che ha nobilitato più di ogni altro. «Abolire la boxe non ha senso – amava dire —. Sono forse ex pugili i due milioni di americani che hanno la mia stessa malattia?». Povero, immenso Clay, costretto a vivere a cento all’ora sfidando l’assalto del male, e obbligato ad essere sempre il campione dei campioni, una leggenda, l’icona planetaria che non poteva permettersi la solitudine della sofferenza.
Da qualche anno Ali viveva a Paradise Valley, in Arizona: apparizioni pubbliche sempre più rare, terapie e molta tv, soprattutto film western, la sua passione, e vecchie sit-com in bianco e nero. Sulla scrivania, una copia del Corano ma anche della Bibbia, capisaldi di una vita attraversata da scelte sempre definitive. Sapeva parlare agli imam e anche ai Papi, ai ricchi e ai poveri. Incontrò i potenti della Terra, mai dimenticando che gli ultimi erano in maggioranza. Aveva il corpo imprigionato nella malattia, ma i suoi pensieri vagavano liberi, bizzarri e grandiosamente autoironici: «Sì, sono sempre il più grande. Nel raccontare barzellette». Negli ultimi tempi, preferiva questa: «In un’ auto ci sono un negro, un messicano e un portoricano. Chi è al volante? Un poliziotto». Lo raccontano ferito e addolorato per le periodiche ondate di violenza che hanno rimesso al primo posto in America la questione razziale, lui che era diventato il simbolo orgoglioso di un Paese che oggi, cinquant’anni dopo Martin Luther King, sembra tornato al punto di partenza.
Lonnie, affettuosamente chiamata «the boss», assecondava gli estri del marito. I medici gli proibivano i dolci? Lui rubava le caramelle dal cassetto. Lonnie, paziente, lo ammoniva: «Non puoi». E Ali: «Boss, ucciderò te e i medici». «Se non avessi fatto il pugile – disse un giorno a Milano, attorno a una tavola imbandita —, sarei diventato un mago»: e passò la serata a far sparire e comparire palline rosse da dietro le orecchie degli invitati alla cena.
Anche sul ring, in fondo, ha giocato per più di vent’anni. Provocava gli avversari, li insultava, li irretiva, componendo deliri onirici come quello che inviò a George Foreman: «Ho fatto a botte con un coccodrillo, ho lottato con una balena, ho ammanettato i lampi, sbattuto in galera i tuoni. L’ altra settimana ho ammazzato una roccia, ferito una pietra, spedito all’ ospedale un mattone. Io mando in tilt la medicina». Esagerato, linguacciuto e paradossale, cambiò il modo di comunicare lo sport, sempre più globalizzato grazie anche alla crescente copertura televisiva degli eventi.
La sua carriera di pugile ha scavalcato l’essenza stessa del pugilato: mai banale, mai scontata, materia buona (e infatti saccheggiata) per libri e film. Vinse l’oro olimpico dei mediomassimi a Roma, nel 1960: aveva 18 anni ed era già un predestinato. Il 25 febbraio 1964, a Miami, conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi, battendo Sonny Liston in un match che odorava di mafia e di combine. La mattina del 26 febbraio, Clay si presentò per la prima conferenza stampa da campione del mondo. A un certo punto un cronista aveva alzato la mano: «Cassius, è vero che sei un membro dichiarato dei musulmani neri?». Clay lanciò il suo primo messaggio politico: «Io credo in Allah e nella pace: adesso non sono più un cristiano, so dove andare e conosco la verità». Da quel giorno smise di essere Cassius Clay e diventò Muhammad Ali, l’«uomo degno di lode».
La conversione veniva da lontano: prima di andare ai Giochi di Roma, Clay aveva incontrato Elijah Muhammad, il gran capo dei black muslims, desideroso di capire la retorica dell’orgoglio razziale che i musulmani neri esprimevano. Diventò un messaggero di lotta e di pace: va inteso così il suo rifiuto di rispondere alla chiamata alle armi per andare in Vietnam. L’America, «quella» America, non poteva perdonarlo: lo accusò di essere stato manipolato, fu incarcerato, privato del titolo mondiale e della licenza di combattere, e per tre anni divenne un fantasma scomodo e ingombrante in un Paese lacerato dai dubbi.
Il ritorno sul ring, nel 1970, segnò la parte più folgorante della sua carriera, tra sconfitte rovinose (Frazier, che poi superò in due occasioni successive, l’ultima a Manila in un match brutale e disperato) e vittorie esaltanti, compresa la battaglia africana contro Foreman (30 ottobre 1974), il suo capolavoro sportivo e politico: trasformò un combattimento di pugilato in uno scontro ideologico fra lui, difensore dell’Africa, e l’altro, il nero che tradiva le proprie radici. Finì con la folla che gridava «Ali uccidilo», e Foreman al tappeto dopo una sfida da capogiro conclusasi all’ottavo round.
Patterson, Bonavena, Chuvalo, Quarry, Frazier, Foreman, Bugner, Norton, Lyle, Evangelista, Shavers: l’elenco di vinti è lungo quanto le litanie con cui Ali soggiogava psicologicamente i rivali. Solo nel crepuscolo della carriera, più triste del dovuto, si arrese a Larry Holmes, suo ex sparring partner, e a Trevor Berbick, uno che ai tempi d’oro avrebbe spazzato via in un solo round: albori degli Anni 80, la malattia cominciò a manifestarsi proprio in quel periodo. Nel 1996, ultimo tedoforo, accese il fuoco del braciere ai Giochi di Atlanta, mostrando al mondo la sofferenza di un campione ammalato ma non sconfitto.
Molti ora diranno: è stato il miglior pugile di tutti i tempi, dimenticando che ogni fuoriclasse è un esemplare unico, inaccostabile per definizione. Meglio sarebbe dire: Ali è stato un «primus inter pares» con Sugar Ray Robinson, Joe Louis e Rocky Marciano. La sua boxe fantasiosa – agilità, guizzo improvviso, intelligenza tattica – rappresentò nei pesi massimi una netta frattura con il passato. Sul ring si muoveva quasi ad occhi chiusi, come se si trovasse nel salotto di casa: occupava gli spazi, danzava intorno all’avversario, sbarrava la strada, colpiva e si ritraeva. È stato farfalla e ape. Era, semplicemente, Muhammad Ali, il più grande.
Emanuela Audisio per la Repubblica
Addio, re del mondo. Sei stato unico, ma il campione di tutti: «Me, We». Io, Noi. Hai svegliato l’America e il ventesimo secolo. Chiedevi parità per neri e bianchi, libertà di culto e di pensiero. Senza di te, niente Obama alla Casa Bianca e nemmeno i guanti neri di Smith e Carlos nel ’68. E Jordan, Tyson, Mayweather, Tiger Woods, LeBron James, Hamilton, non guadagnerebbero milioni. Non conta che ti ricordino come Cassius Clay o come Muhammad Ali, che ti abbiamo visto in tv o nei poster, importa che sei stato capace di far alzare le braccia e la testa a chiunque cercasse dignità. Hai combattuto, protestato, provocato. Sapevi far male con i pugni e con le parole. Rosa Parks nel 1955 su un autobus a Montgomery si era rifiutata di cedere il posto ai bianchi, anche tu eri rimasto seduto, ma in più ti eri messo alla guida. E l’avevi urlato: i neri potevano e dovevano condurre. Hai cambiato l’immagine del pugile, della boxe, del campione ignorante. Recitavi, rappavi, inventavi poesie. Un fenomeno, una linguaccia, anche insopportabile. Tenevi testa a scrittori come Norman Mailer, agli artisti come Andy Warhol, giocavi a dare cazzotti ai Beatles, cantavi con James Brown, discutevi con Fidel Castro e Mandela e al telefono anche con il filosofo Bertrand Russell per concludere: «Lei è meno tonto di quello che sembra». Stare con gli altri per te non era tempo perso. Ti divertivi, perfino con i giornalisti: «Se non scrivi bene di me, chiamerò tua moglie e le dirò con chi vai a letto in trasferta».
Un gigante, dentro e fuori il ring. Fisico stupendo, 1,91 d’altezza, 97 chili. Il tuo dottore, Ferdie Pacheco, si vantava: «Fossero venuti i marziani a chiedermi un esemplare umano, gli avrei detto: prendete Ali, è perfetto». Il tuo allenatore, Angelo Dundee spiegava: «Non provarci, se cerchi di capirlo ti farà diventare matto». Eri bello, veloce, dallo stile strafottente, con quelle braccia abbassate. E tutti a criticare: dove crede di andare quel buffone? Ovunque, soprattutto in cima, infatti non ti prendeva nessuno. Avevi fede, eri un profeta dell’impossibile, non c’era un pronostico a tuo favore contro Sonny Liston, l’Orso, eppure lo buttasti giù. Dicevi di essere il più grande. Sembrava una battuta, era la verità.
Tre volte campione del mondo dei pesi massimi: 21 anni sul ring, 56 combattimenti, 5 sconfitte. Nemmeno Joe Louis e Rocky Marciano avevano affrontato così tanti e veri avversari. Contro di te si diventava grandi e si entrava nella leggenda. Non avevi bisogno di Shakespeare per inventare tragedie e commedie. Le scrivevi con il tuo corpo. Quattordici riprese valevano come una guerra e come Re Lear. Dopo il terzo match con Frazier a Manila nel ’75 avevi vinto, pisciato sangue per tre giorni, e detto: «È stata la cosa più vicina alla morte». E Joe, che era un carro armato di 110 chili, con l’occhio chiuso tumefatto, aveva risposto: «Spero che brucerai all’inferno». Frazier che tu chiamavi Il Gorilla era stato il primo a sconfiggerti (ai punti) nel ’71. Rientravi sul ring dopo 43 mesi di esilio: Joe si ruppe il polso destro per spaccarti la mascella. «Black is the colour», cantava Nina Simone. Era il ‘64 quando Martin Luther King ricevette il Nobel della pace e Robert Woodruff, vecchio boss della Coca-Cola, chiamò i suoi ad Atlanta per dire di muoversi, c’era da organizzare in città una festa in onore del reverendo King. «Ma capo, non possiamo, è un nero», fu la risposta dei dirigenti.
I neri allora erano il colore della disgrazia, andavano bene per intrattenere, dovevano ballare e stare zitti. Tu hai cambiato lo spettacolo: «I’m nobody good guy». Non sono il bravo ragazzo di nessuno. «I don’t have to be what you want me to be». Non devo essere quello che voi volete io sia. Eri diventato altro: il fuorilegge dell’America, il ribelle più pericoloso, il soldato che non voleva andare ad uccidere i vietcong, il musulmano che nello spogliatoio pregava con Malcolm X. In breve: il sovversivo, l’anti-americano. Te l’avrebbero fatta pagare. Nel ’67 ti chiamarono alle armi, anche se eri riservista, assegnato ai servizi sedentari. All’appello ti rifiutasti di fare un passo avanti, e quando ti chiesero se avessi capito bene cosa voleva dire rifiutare l’arruolamento rispondesti «benissimo». Eri ufficialmente un disertore. Ti squalificarono, multa salatissima, ti tolsero il titolo mondiale e in più il furto più grande, ti presero la gioventù.
Tre anni e mezzo fermo, derubato della carriera e della possibilità di mantenere la famiglia. Quando sei tornato nel ’70 contro Quarry ad Atlanta a bordo ring c’erano Coretta King, l’attore Sydney Poitier, la cantante Diana Ross e il reverendo Jesse Jackson. Avevi 29 anni, non eri più solo un pugile, ma un simbolo: «L’uomo che ha la marcia di Washington nei pugni». Gli altri li avevano già fatti fuori: sia Malcolm che Martin Luther.
Non eri straniero in nessun angolo del mondo. Hai combattuto ovunque, con e senza titolo in palio: a Toronto, Londra, Francoforte, Zurigo, Tokyo, Vancouver, Dublino, Giakarta, Kinshasa, Kuala Lumpur, Manila, San Juan, Monaco, Nassau, New York, Las Vegas, Miami Beach, Los Angeles, San Diego, Houston, Cleveland, New Orleans, Atlanta, Louisville, e anche a Lewiston, nel Maine. Quando l’America pensava che l’Africa era una giungla immensa ti sei fatto africano e sei andato in Congo (allora Zaire). Quando Foreman a Kinshasa imprecava perché non riusciva a trovare i suoi amati cheeseburger tu ti immergevi nel coro dei bambini che correndo sulla terra polverosa gridavano «Ali, boma ye». Ali, uccidilo. Non dovevi vincere, nemmeno quella volta nel ’74. Quando eravate re. Nel primo mondiale all black: neri tutti, anche l’arbitro e il paese. Troppo vecchio tu, troppo giovane e picchiatore l’altro. Ma non c’era modo di ammaccarti la fiducia, di fiaccarti. Hai incassato e sopportato, l’hai fatto sfogare, poi come un matador con il toro scatenato l’hai finito all’ottava con un gancio alla mascella. Ma prima l’hai anche deriso: «Ehi signorina, tutto qui? Non ce la fai a picchiare più forte?». E Foreman che sbuffava rabbia cupa: «L’ho odiato tantissimo, a quei tempi colpivo duro, ma lui mi ha dominato psicologicamente ». Quasi nessuno lo sa, ma c’era un aereo segreto prenotato, pronto a decollare per portare Ali in una clinica neurologica di Lisbona nel caso di traumi al cervello. Tanto si temeva la brutalità di Foreman.
Ma hai combattuto troppo. Nell’80 contro Larry Holmes, tuo ex sparring, fu un’autopsia su un corpo ancora vivo. Avevi 38 anni, eri in sovrappeso, fuori forma, non ce la facevi più, nemmeno ad alzarti dall’angolo. Ma volevi affrontare il nuovo campione, per otto milioni di dollari e per orgoglio. Un anno dopo a Nassau contro Trevor Berbick, 14 anni di differenza, fu ancora peggio: un’esecuzione più che un match. Una punizione selvaggia. Eri gonfio, spento, irriconoscibile. La bellezza svanita. Troppo pure per un immortale. Tua figlia Maryum, 12 anni, si mise a piangere. «Quella sera pensai: se papà perde, smetterà, e io sarò felice». Ci arrivasti anche tu: «Padre Tempo mi ha preso. Sono sempre bello. E non me la sono cavata male per un quarantenne. Tutti perdiamo, tutti invecchiamo». Tutti sì, ma tu eri The Greatest, non tutti. Berbick passò alla storia come l’ultimo che ti aveva battuto, ma la sua restò una gloria sporca, non si malmena un dio. Nell’ 86 diventò campione del mondo, otto mesi dopo perse il titolo contro il ventenne Mike Tyson, che lo stese al secondo round: «Per vendicare Ali».
Tornasti a Los Angeles, per divorziare dalla modella Veronica Porsche, ma non dal Parkinson, che aveva iniziato a rubarti i gesti. Non ti ricordavi più bene, molte tue parole erano incomprensibili. La gente cominciò a chiederti: cosa hai detto? non ti capisco. La malattia era progredita con sincerità.
Ai Giochi di Atlanta nel ‘96 l’America ti tirò fuori dal passato. Tremavi con la torcia in mano, nell’accendere la fiamma olimpica, ma il mondo pianse di commozione. Eri sempre il più grande, anche nella fragilità e nel tuo silenzio. Ti mostravi com’eri: ferito, impacciato, goffo. Ma la testa e lo sguardo erano sempre dritti. «Pensavate fossi Superman, ora potete dire, è umano come noi». L’America non aveva nessun altro campione da mostrare. Non così universale, non così amato, non così conosciuto. Eri la sua nostalgia, ma anche la sua parte migliore, quella che sapeva battersi in nome e per conto di tutti. Hai detto tre grandi cose, non da pugile. La prima: «Ci sono cose più piacevoli da fare che picchiare le persone». La seconda: «Non perdi mai quando combatti per una causa, perdi quando non hai una causa per cui lottare». E l’ultima: «Vorrei che le persone si amassero nel modo in cui amano me. Sarebbe un mondo migliore». Non hai mai voluto pietà, né lacrime. Non hai mai maledetto né Dio né il destino. Piangete per gli altri, dicevi, per gli indifesi. Hai pagato tutto: la tua grandezza, la tua umanità, i tuoi sbagli. Non lasci eredi. Non è più la tua America questa di Trump. E i ring ormai sono tanti. Ma noi ti dobbiamo quel We. Con te siamo stati noi. E adesso, lasciaci un po’ piangere.
Riccardo Crivelli per La Gazzetta dello Sport
Ci sono rivalità che segnano la storia. Di più: la trascendono, trasformandosi in episodi di una leggenda senza fine.
LISTON Sonny Liston è secondo molti il più terribile picchiatore di ogni tempo. La prima sfida con quello che è ancora Cassius Clay data 25 febbraio 1964, a Miami, in palio il Mondiale che Liston, ex galeotto semianalfabeta e con legami con la mafia, detiene dal ‘62. Nonostante Clay sia in grande ascesa, Sonny è favoritissimo. Il match però racconterà un’altra storia: la velocità del più giovane è un’arma alla quale Liston non può opporre la sua potenza, fino al ritiro all’inizio del settimo round per una lussazione alla spalla sinistra. Un mistero che rimpicciolisce di fronte a ciò che succederà nella rivincita del 25 maggio 1965, il match del «pugno fantasma», foto simbolo che abbiamo scelto per la nostra prima pagina di oggi. Si combatte a Lewiston, una piccola cittadina del Massachusetts, perché la sfida tra un musulmano nero convertito e un reietto che ancora una volta è appena stato in galera è molto scomoda, senza contare che la mafia non vuole troppa visibilità per un match che Liston deve perdere. Così, dopo 1’32” del primo round, Sonny finisce giù con un colpo che nessuno degli 8.297 spettatori (su 16.000 posti) sarà in grado di cogliere.
FRAZIER Quando Ali torna, nell’ottobre del 1970, c’è un nuovo padrone incontrastato dei massimi, Joe Frazier. La sfida tra i due è fissata per l’8 marzo 1971 in una sede mitica, il Madison: borsa di due milioni e mezzo di dollari, un record. E’ una sfida titanica tra due stili completamente diversi: eleganza contro forza bruta. All’11° round l’incontro è pari: con il gancio sinistro, la sua arma migliore, Frazier centra lo sfidante, che barcolla. E’ l’episodio decisivo: nell’ultima ripresa, memorabile, Ali tocca il tappeto ancora su un gancio sinistro, resiste in piedi ma deve inchinarsi alla vittoria ai punti dell’avversario. Muhammad finisce con una mascella rotta, Joe all’ospedale. I loro destini si incroceranno nella stessa arena il 28 gennaio 1974, senza corona, che appartiene a Foreman. La rivincita vale l’eliminatoria per sfidarlo. Il match è sostanzialmente dominato ai punti da Ali, più veloce e più preciso.
RUMBLE IN THE JUNGLE Battuto Smokin’ Joe, Ali incrocia dunque George Foreman, il nuovo campione circondato da un’aura di forza sovrumana. A sorpresa, per organizzare l’incontro, la spunta un modesto manager di Cleveland, Don King, esagerando: promette una borsa di cinque milioni di dollari a testa. Così cerca sponsor influenti fuori dagli Stati Uniti, fino a quando gli viene in aiuto Mobutu Sese Seko, spietato dittatore dello Zaire. Ali si fa subito paladino dei diritti dell’Africa, trascinando tutta la popolazione dalla sua parte con una canzoncina di poche parole ma dal significato secco e preciso, «Ali bomaye», «Ali uccidilo». Ma se la gente sta con lui i tecnici, in quella notte del 30 ottobre 1974, ritengono largamente favorito Foreman, imbattuto in 40 match con 37 k.o. Ali parte aggressivo, ma si rende conto che quella tattica è troppo dispendiosa. Così mette in atto una strategia semplice e molto efficace, il «Rope a Dope»: con la guardia chiusa, si appoggia alle corde per attutire le bordate dell’avversario, che scarica mazzate sulle braccia e al tronco, ma mai al volto. Mentre monta la rabbia sterile di George, Muhammad assume pian piano il controllo, anche mentale, fino al fatidico ottavo round. Lì, un gancio sinistro di Ali solleva la testa di Foreman, un rapidissimo diretto destro lo centra alla mascella. E i 100.000 dello stadio, in un trionfo di danze tribali, cantano insieme «Ali bomaye» in un giorno diventato eterno.
THRILLA IN MANILA Riconquistata la corona, Ali è di nuovo il Più Grande. Ma bisogna elettrizzare le folle. Don King, dopo Kinshasa, mette a segno un altro colpo: la terza sfida con Frazier. E ancora una volta accetta una scomoda sponsorizzazione, quella del dittatore delle Filippine Ferdinando Marcos. E’ il 1° ottobre 1975 e subito Don King inventa per la sfida la definizione «Thrilla in Manilla». Tutti dicono che Frazier sia finito, ma ne sottovalutano l’orgoglio e la rabbia. Così, sul ring, in un incontro dominato da un caldo atroce (sono le 11 del mattino), va in scena una battaglia senza tregua. Dal 10° round, la maggior freschezza e rapidità di Ali scavano un fossato. La 13a ripresa è tremenda per Frazier, che ha un occhio chiuso e la bocca massacrata; nel round successivo finisce sull’orlo del k.o., ma non si piega a un avversario a sua volta sfinito. L’epilogo si consuma all’angolo di Frazier, che su consiglio dell’allenatore Eddie Futch non si rialza per il 15° round. Ali ha vinto, ma poco dopo dichiarerà di non essere mai stato così vicino al ritiro.
Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera
Barack Obama, il primo afroamericano alla Casa Bianca, a nome del Paese, ieri ha salutato Muhammad Ali, ricordando queste sue parole: «Io sono l’America, sono quella parte che voi non volete riconoscere. Ma vi abituerete». E venerdì 10 giugno, a Louisville, la città natale di Muhammad nel Kentucky, l’orazione funebre sarà letta da Bill Clinton, «il primo presidente nero» secondo la scrittrice Toni Morrison.
Quarant’anni fa l’establishment politico e giudiziario del Paese aveva, anche con un certo gusto, buttato nella spazzatura quell’atleta già immenso. Era il 1967 e lo Zio Sam chiamava il pugile campione del mondo a combattere in Vietnam. Ali rispose con un epigramma: «Io non ho niente contro i Vietcong. Loro non mi hanno mai chiamato “nigger”, “negro”». I giornali conservatori, ma non solo quelli, lo fecero a pezzi. Ma se quell’epoca cambiò per sempre l’America e l’Occidente, se i «Sessanta» sono i «Sessanta», il merito è anche di quel «no» alla guerra.
La sincerità spinta all’estremo può diventare arroganza. E Cassius Clay- Muhammad Ali, campione del mondo dei pesi massimi, sapeva essere arrogante: «Perché vengono a cercare proprio me? Con le tasse che verso al governo ci pagano 50 mila soldati». Nel frattempo i suoi coetanei bianchi, destinati a dominare la politica, si imboscavano: George W. Bush, che il 9 novembre 2005 gli conferì la più alta onorificenza, «la medaglia presidenziale della Libertà», lo stesso Bill Clinton e anche Donald Trump. Nessuno ebbe da eccepire. Mentre Ali, con la sua boccaccia, finì sotto processo, fu condannato a 5 anni di carcere. Fece appello, non andò in prigione.
Basterebbe questo gesto per tarare il calibro dell’uomo. E invece il Vietnam, in fondo, fu un episodio casuale che il «Labbro di Louisville», soprannome giovanile del verboso Cassius, non si era certo andato a cercare.
Fino ai venticinque anni Ali non aveva letto neanche un libro. A fatica aveva strappato un diploma scolastico. Non era nato povero, non era stato costretto a razzolare nei ghetti. Eppure combinava la rabbia istintiva che viene dalla fame, che non aveva, con la lucidità dell’intellettuale che non era.
Il suo era un bisogno di giustizia non solo personale, ma collettiva. Il mondo da capovolgere. Ecco perché si avvicinò nel 1962 alla Nazione dell’Islam, una specie di setta separatista nera guidata da Elija Muhammad, un estremista che persino l’intransigente Malcolm X giudicò eccessivo. Malcolm X, la prima guida: uno degli amici più intimi di Cassius. Fu lui che diede finalmente una prospettiva pubblica, e quindi una valenza politica, a quel talento, a quell’intelligenza dentro e fuori il ring. Nel 1964 il pugile rigettò il «nome da schiavo», in un primo momento optò per Cassius X, come Malcolm. Poi decise per Muhammad Ali, la «fonte della verità». Da allora le provocazioni del campione diventarono militanza. Nella Nazione dell’Islam, poi in «Black Power», e ancora a fianco dell’altro grande leader del riscatto afroamericano: Martin Luther King. Muhammad Ali cominciò a studiare, a concentrarsi sul Corano e su letture antropologiche, sull’identità delle razze. Incontrò il presidente sudafricano Nelson Mandela, che definì «fonte di ispirazione».
Non si nascose neanche quando, nel 1984, gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Muhammad, è stato scritto, diventò una specie di venerabile presenza, forse perché adesso era più debole. Tutti ora, per esempio, ammiravano le sue missioni umanitarie in Iraq. L’ultima uscita pubblica, l’8 dicembre del 2015. Trump aveva appena invocato il «bando provvisorio» degli immigrati musulmani. Muhammad rispose così: «Non c’è niente di islamico nell’uccisione di persone innocenti. I leader politici dovrebbero aiutare la gente a capirlo».
Nino Benvenuti per Il Messaggero
Muhammad Ali non ha mai smesso di combattere. E forse non smetterà più, nemmeno adesso che se n’è andato. Lo aveva già detto tanti anni fa, ma nessuno gli aveva creduto. Adesso c’è il dolore per la sua dipartita avvenuta troppo presto. Di lui, di questo splendido campione che ha imparato a fare a cazzotti perché voleva prendere un ladro che gli aveva rubato la bicicletta quando aveva dodici anni, mi rimane un ricordo indelebile. Indelebile per me e per quello che ci ha fatto vedere con il suo pugilato, un pugilato che prima del suo arrivo era diverso e dopo il suo arrivo è cambiato. Adesso, ai tempi nostri, quelli di oggi, la boxe è al limite e non credo possa esserci altro da fare. Se è cambiata, e in meglio, il merito è suo.
La prima volta che lo ho incontrato si chiamava Cassius Clay: è stato a Roma, alle Olimpiadi del 1960. In quei Giochi la lotta per la supremazia è stata tra noi due, lui mediomassimi e io welter. La Coppa Val Barker, il trofeo che viene consegnato al pugile tecnicamente migliore, l’ho vinto io. Eravamo in Italia e, credo, se fossimo stati altrove probabilmente la valutazione sarebbe stata diversa. Il pugilato vive su regole che hanno nello stile il suo rigore. Il mio, di stile, era classico; lui, il Cassius Clay che Roma ha ammirato, era l’innovatore. La sua arte era immensa ed eccelsa. Si credeva fosse impossibile affrontare l’avversario a mani basse: solo lui lo sapeva fare. Ha mostrato, sul ring, cose che ad altri non erano consentite.
A Roma ci ha insegnato tanto anche se ancora non era il Muhammad Ali che avremmo ammirato dopo quando è diventato il grande che tutti abbiamo conosciuto. Grande per i suoi epici combattimenti e, soprattutto, per le sue straordinarie battaglie. Cosa devo dire, che lui, il mio amico Ali, è stato un divo, un ambasciatore, uno straordinario ballerino da cento chili sul ring dove si muoveva con l’agilità della piuma. Lo dico con grande convinzione: lui ha cambiato per sempre il pugilato.
Ci siamo rivisti per l’ultima volte nel 1999. A Roma, nella città eterna che lo ha mostrato al mondo in quella Olimpiade che ci ha fatto vivere giornate meravigliose. Sì, davvero meravigliose perché l’atmosfera del Villaggio olimpico era unica. Parlavamo tanto, io e Cassius Clay, e tanto lo abbiamo fatto anche in seguito. Ecco, quel giorno del 1999 eravamo a casa di Gianni Minà, suo grande amico. Non eravamo tanto distanti dal Villaggio del 60: possiamo dire che da Monte Mario lo vedevamo quasi e ne avvertivamo i profumo come fossimo ancora lì con i nostri vent’anni. Quel pomeriggio ci siamo divertiti, abbiamo chiacchierato, ci siamo raccontanti tante cose della nostra vita, del pugilato, della questione dei neri e della sua battaglia. Quanti ricordi con gli occhi velati, ricordi romani, ricordi di Foreman, di Don King, della sua medaglia d’oro del 1960 gettata in un fiume. Non stava bene, il fisico era logoro, il male non lo lasciava in pace. Io, per fargli allegria, gli ha parlato della cerimonia di apertura di Atlanta che era, allora, recente, appena tre anni prima. Era rimasto contento di quella sera che lo ha mostrato al mondo. Mi ha ricordato, con un velo di tristezza, che aveva perso i suoi anni migliori per lo sport perché l’esercito lo aveva chiamato e lui non si è mosso. Non voleva andare in Vietnam. E via a parlare della sua religione, dell’essere musulmano che non porta armi e non fa la guerra. Una pensiero è scivolato, parlando ancora di Roma 60, su Wilma Rudolph, la gazzella nera amica di Livietto Berruti.Ciao, caro e immenso Alì.
Matteo Persivale per il Corriere della Sera
D enzel Washington ha prestato a Malcolm X, nel film di Spike Lee, la nobiltà del suo profilo e la profondità della sua voce. Martin Luther King è apparso sugli schermi in Selma l’anno scorso con la dignità da principe Yoruba dell’attore britannico David Oyelowo; nelle ultime settimane il reverendo King è apparso sugli schermi tv americani interpretato da un altro grande attore, Anthony Mackie, in All the Way . Muhammad Ali però è l’icona afroamericana che al cinema non è riuscita a trovare un’incarnazione convincente. Il problema fu espresso con franchezza da Will Smith che nel 2000, quando era la più grande star di Hollywood, accettò di interpretare il campione nel film di Michael Mann uscito l’anno successivo.
Smith, di Ali aveva costruito meticolosamente il fisico da statua greca in palestra. Ammise però che la parte difficile stava nei monologhi. Fingere di boxare come Ali — grazie all’aiuto del montaggio e delle luci — era una cosa, ma interpretarne in modo credibile le uscite da spaccone, lo charme, la risata da bambino con la quale sottolineava una battuta, era molto, molto più complicato. E fu così che il kolossal Ali fece flop («Lungo e stranamente piatto», lo stroncò il critico Roger Ebert).
Un’altra vittoria per ko in favore del vero Ali, «the one and only» come dicevano di lui gli speaker prima dei combattimenti, «il solo e unico». «The greatest», «il più grande» come diceva lui. E proprio T he Greatest è il titolo del film nel quale la vita di Ali viene raccontata, nel 1977, attraverso la fiction, da un regista e da un cast di attori — anche molto bravi: Ernest Borgnine nei panni dell’allenatore Angelo Dundee e James Earl Jones in quelli di Malcolm X — ma il protagonista è il vero Ali. Felice di annunciare che nessun attore sarebbe stato capace di imitarlo, «sono troppo carino». Ebbe più fortuna un fumetto, l’anno successivo: Ali stende perfino Superman nel giornalino della DC Comics. La storia di Ali nella cultura popolare americana è una storia di autointerpretazioni, di comparsate, di apparizioni speciali: Ali che finge di boxare con un giovanissimo Michael Jackson, con gli spauriti Beatles; Ali che compare nel salotto del piccolo Arnold del telefilm, Gary Coleman, che lo batte in sarcasmo fingendo di scambiarlo per il campione del passato Joe Louis e Ali abbozza, «sta delirando». Ali era straordinariamente affabile con i bambini: la sua vita è anche una fotostoria di finti ko mimati per la gioia dei giovanissimi fan. D’altronde decise di diventare pugile quando, da piccolo, qualcuno gli rubò l’adorata bicicletta rossa.
Ali che negli Anni 60 faceva impazzire la grande poetessa Marianne Moore che lo incoronò come collega è anche — parola di Gil Scott-Heron — uno degli inventori ad honorem del rap: i suoi discorsi sincopati, pieni di parole tronche, ritmati, martellanti, precorrono l’hip-hop e per questo fu ringraziato nelle canzoni della Sugarhill Gang, di Nicki Minaj, Nas, The Game.
La sua immagine inimitabile resta nei documentari come When We Were Kings - Quando eravamo re , sul combattimento in Zaire nel 1974 contro Foreman: premio Oscar 1996 ritirato proprio da Ali vecchio e malato, accompagnato sul palco dall’ex rivale a raccogliere la standing ovation di tutta Hollywood, e la commozione di tutta l’America che tanti anni prima lo odiava, e temeva.
L’ha ripetuto anche il regista inglese Stephen Frears che ha usato tanti grandi attori per il film-tv Muhammad Ali’s Greatest Fight del 2013 sulla sentenza della Corte Suprema che nel 1971 restituì ad Ali la vita e la carriera: Frears ha scelto di lasciare Ali dietro le quinte. Lo mostra soltanto tramite filmati d’archivio, il «solo e unico», «il più grande», impossibile da imitare anche per il divo più pagato del mondo.
Gianni Riotta per La Stampa
«Un uomo che a 50 anni la pensa come a 20 ha sprecato 30 anni della sua vita» amava ripetere Muhammad Ali, il campione di pugilato nato Cassius Clay a Louisville in Kentucky, in una famiglia afroamericana con antenati bianchi, che risalivano - secondo il padre del futuro campione - al senatore Clay, celebre nel XVIII secolo. Nella sua vita Ali cambiò nome, religione per tre volte, prima cristiano, poi aderente alla setta estremista Nazione dell’Islam che considerava i bianchi «diavoli», poi, come il leader radicale Malcolm X si unì all’Islam sunnita ortodosso, ma con alcune pratiche della filosofia Sufi.
Cambiò mogli, quattro volte, ebbe nove figli - alcuni lo accusarono di incuria -, cambiò fede politica. Al giornalista sovietico che, dopo la vittoria alle Olimpiadi di Roma 1960, lo provoca sul razzismo in America, Clay risponde con un comunicato in stile Guerra Fredda: «Nel mio Paese stiamo risolvendo la questione, siamo il miglior Paese del mondo, incluso il suo, ci sono problemi ma nessuno lotta con i coccodrilli o vive in capanne di fango». Il Clay patriottico lascia il posto, sei anni dopo, all’Ali obiettore di coscienza contro la guerra in Vietnam (era stato esentato per aver fallito i test attitudinali, l’esercito gli assegnava un Quoziente Intelligenza di soli 73 punti, sapeva a stento leggere e scrivere e ammise di non avere mai finito un libro, neppure quelli che firmava o il Corano «ne ho solo imparato brani a memoria»). Persuaso che l’abbiano incastrato per punirlo della conversione all’Islam, Ali detta ai giornalisti «Non ho nulla contro quei Vietcong là», viene incriminato e squalificato, finché la Corte Suprema non riconosce la sua obiezione di coscienza e lo riabilita. Le grandi firme conservatrici, come Red Smith dell’allora mitico quotidiano New York Herald Tribune, lo insultano «Grugnendo contro la leva, Cassius si è ridotto come i sudici capelloni pacifisti da strada», il grande cronista tv Howard Cosell continua invece a invitarlo in trasmissione, contro ogni censura.
Ali ha quasi 30 anni quando torna sul ring, ma è una celebrità. Il Nobel per la Pace King gli aveva mandato telegrammi di solidarietà, e al primo incontro del 1970 la sua vedova Coretta King è in prima fila con gli attori Sidney Poitier e Bill Cosby, la cantante Diana Ross, il futuro candidato alla nomination democratica Jackson. Ali è icona del tempo, prima di Mourinho, Grillo e Trump aggredisce i cronisti, «Sono il più grande», ha una serie infinita di flirt («Sesso nel tempo di un autografo» scrivono di lui) ma con narcisismo, coraggio, vanagloria, dignità, cambia l’America. Nel piangerlo il presidente Obama ricorda «Ali non era perfetto», l’atleta che dava ai ragazzini neri il coraggio per esser se stessi contro il razzismo, copriva poi di insulti feroci gli avversari.
Ali, chiaro di pelle, aggrediva il rivale Joe Frazier, nato nell’enclave africana Gullah, come «gorilla», e Frazier ne soffrì fino alla morte, amareggiato. L’uomo di cui il reverendo Abernathy - erede di M. L. King - diceva «i suoi guantoni hanno la forza di una manifestazione per i diritti civili», copriva di improperi troppi pugili, accanendosi contro il povero Sonny Liston al tappeto: «E alzati cialtrone».
Questo era Ali, che si vantava «svolazzo come una farfalla e pungo come un’ape». Aveva cambiato il codice del boxeur, mai schivare i colpi ma testa indietro a eluderli, irridendo gli uppercut, guardia bassa contro ogni regola, ad invitare i pugni senza paura. Per un pugile essere stretto alle corde era segno di cedimento - l’espressione «ridursi alle corde» è passata nel linguaggio comune come segno di difficoltà - ma Muhammad Ali si sdraiava al limite del ring e assorbiva i colpi dell’avversario, trasformando il proprio corpo in punching ball da allenamento. La sua capacità di assorbire la sofferenza commosse i tifosi, nella sconfitta al vecchio Madison Square Garden di New York contro Frazier, 15 round di massacro con lo scrittore Norman Mailer a fare il cronista e Frank Sinatra a scattare foto. La stessa tattica nel 1974, in Zaire, contro Foreman, la folla a gridare «Ali Bomaye», uccidilo Ali! Per 8 round Ali si sacrifica incassando colpi che avrebbero ucciso tanti altri pugili, poi atterra Foreman. L’anno dopo, a Manila, Ali soffre contro Frazier, vince e confessa «È stato come morire».
Ora sappiamo che era davvero «morire», l’Ali tremante che accende il braciere olimpico ad Atlanta 1996 soffriva di un morbo di Parkinson che molti medici credono accelerato dai colpi subiti. Aveva fatto in tempo a liberare alcuni ostaggi americani, sequestrati da Saddam alla vigilia della I Guerra del Golfo, 1990, e la Casa Bianca di Bush padre lo criticò, «showman». Durante la missione a Baghdad gli finirono le medicine contro il Parkinson, faticava a parlare, alzarsi dal letto, e si diffuse la voce che fosse incapace, invalido, poco lucido. E l’11 settembre 2001, il cronista di Selezione dal Reader’s Digest andò a trovarlo nella sua tenuta di Berrien Springs, in Michigan, 88 acri di campagna, e gli chiese cosa pensasse davanti al blitz dei fondamentalisti islamici. Ali ripeté, con la parlata strascicata che botte e malattia gli aveva inflitto, la sua fede, Islam è religione di pace, uccidere donne, uomini e bambini innocenti non è da musulmani credenti nel Corano.
L’ultima uscita contro il proclama di Donald Trump sul divieto di ingresso dei musulmani in America, anche contro i cittadini Usa, misura che l’avrebbe riguardato di persona. Ali, come tanti sportivi, era stato in rapporti amichevoli con l’impresario Trump, concedendogli perfino di persona, nel 2007, il Premio Muhammad Ali, ma ora reagì deluso «Per un candidato presidenziale non è giusto discriminare contro una religione». L’ape della boxe era ora farfalla del dialogo, impaurito per l’odio che vedeva montare nel suo Paese e nel mondo.
«La boxe professionistica è l’unico grande sport americano le cui energie primordiali, e a volte omicide, non sono deviate con falso pudore da oggetti come palle e dischetti di gomma… Sopravvive come la più primitiva e terrificante delle competizioni: due uomini, pressoché nudi, si battono su uno spazio rialzato e illuminato a giorno, delimitato da corde come un recinto per animali… salgono sul ring da cui, simbolicamente, ne scenderà uno solo... La boxe è l’imitazione… di una lotta per la vita o per la morte… perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento, le loro vite… accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti… la vita sul ring è ingrata, brutale e corta» dice alla perfezione la scrittrice Joyce Carol Oates nel suo saggio «Sulla Boxe» tradotto in italiano dall’editore 66and2nd.
Di questa mattanza Ali fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore.
Luca Doninelli per il Giornale Se i Beatles furono, come diceva John Lennon, più famosi di Gesù Cristo, Muhammad Alì fu più famoso dei Beatles. Ciascun abitante della Terra o quasi potrebbe infatti trovare, cercando bene, un po’ di Alì nella propria biografia. Ho sentito ragazzi di quindici, sedici anni gridare in coro Alì bomaye! Tutti noi, giovani o vecchi, magari non per esperienza personale ma solo per il racconto di un nonno o di un bisnonno, abbiamo conosciuto e amato questo eroe, spesso senza aver visto un solo suo match. La sveglia del nonno puntata alle tre e mezza per non perdere nemmeno la cerimonia di apertura, il canto degli inni. Gli incontri trasformati in grandi romanzi epici con tanto di titolo: Rumble in the Jungle, oppure Thrilla in Manila: il primo (contro Foreman, Kinshasa 1974) paragonabile a La linea d’ombra, il secondo (contro Frazier, Manila 1975) a Viaggio al termine della notte. Capolavori targati Congo, Filippine, e non Las Vegas o Atlantic City, come vorrà in seguito lo stantio show-business della boxe. Ma tutto di lui è romanzo, dal furto della bicicletta che lo portò a imparare la boxe all’accettazione del Parkinson come un dono di Dio. E adesso quel romanzo non c’è più: è come se Guerra e pace fosse stato eliminato da tutte le biblioteche e da tutte le librerie, reali e virtuali, e non fosse più possibile leggerlo, ma solo udirne qualche improbabile pagina registrata tanti anni fa da una voce mal conservata, sopraffatta dai fruscii. I libri e i film a lui dedicati non si contano, ma non sono altro che la tonaca che riveste la sua umana ventura. Lui stesso firmò più di una autobiografia. Ma in realtà tutta la sua vita è stata un’autobiografia, che si scriveva nell’atto stesso di essere vissuta, trasformandosi immediatamente in un testo capace di avvincere il lettore, di suscitare le sue risate, di farlo riflettere. La sua risposta a Bertrand Russell, che gli aveva scritto in carcere: «Non sei scemo come sembri in fotografia». La sua risposta al più celebre anchorman d’America alla vigilia del match (suicida, dicevano) contro Foreman: «Tu dici che non sono più l’Alì di una volta? Be’, poco fa ho incrociato tua moglie, e mi ha detto che non sei più quello di una volta». O quella data a un giornalista sul famoso pugno invisibile con cui sconfisse Liston: «Fu più rapido di un battito di ciglia. Probabilmente in quel momento stavate tutti battendo le ciglia». Le fotografie: Alì che evita un sinistro di Frazier, Alì che guarda Foreman cadere lentamente al tappeto, Alì che inveisce contro Liston che non si vuole rialzare, Alì che colpisce con un pugno tutti e quattro i Beatles. La mia preferita è più rara: Alì che accarezza la testa pelata di un furibondo Earnie Shavers (per inciso, Shavers è considerato da molti il più terribile picchiatore di tutti i tempi). Due uomini intelligenti come il suo amico scrittore Norman Mailer e il suo grande avversario George Foreman sono concordi nel dire che Alì non è stato un pugile vero e proprio: è stato piuttosto un uomo politico che ha usato la boxe per diffondere nel mondo le proprie idee, qualcosa di simile più a Gandhi o a Martin Luther King che a Mike Tyson. «Il pugile è uno come me» diceva Foreman, «ossia uno che ragiona con i pugni: ma lui era di un’altra razza». Per tutti gli abitanti della Terra che lo hanno celebrato con libri, documentari, film e persino fumetti, lui è stato di un’altra razza, qualcosa di diverso, e al tempo stesso un uomo come a tutti piacerebbe essere. Tutti ci ritagliamo un ruolo nella vita, recitando la parte che ci scegliamo (se va bene) o che altri ci assegnano. Lui non recitò nessuna parte, nemmeno quella del pugile: è stato soltanto Muhammad Alì, unico su questa Terra, come tutti noi. Solo che lui lo sapeva meglio di noi, e forse proprio per questo è stato davvero il più grande.