Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2016
Marò, errori e verità
Il primo istinto del nostro presidente del Consiglio (evito premier perché da noi una carica simile non esiste, per ora) fu quello di mandare i marò alla sfilata del 2 giugno. Poi ci ripensò. Forse per le gravi parole della sentenza indiana, per le ritorsioni sul nostro commercio di armi e perché nel mondo perbene due indagati di omicidio ancora sotto processo che sfilano non sarebbero stati capiti. Forse. Ma la ragione più vera è che la sfilata dei marò avrebbe messo in imbarazzo loro e la nomenclatura politica e militare. Avrebbero dovuto rendere il saluto dell’obbedienza e dell’onore militare a tribune stracolme di comandanti, capi di Stato Maggiore, ministri, sottosegretari e presidenti che avrebbero dovuto sentirsi in imbarazzo. Con ragione.
L’inchiesta militare ha accertato responsabilità per cose che sono state fatte e altre che non sono state fatte, come quella d’impedire che la nave rientrasse in India. Escamotage che avrebbe evitato il dramma dei marò, ma ci avrebbe bollato come banditi e pirati. Non siamo ancora riusciti però a capire come i marò siano stati autorizzati a prestare servizio armato su una nave mercantile in contrasto con tutte le raccomandazioni dell’Organizzazione Marittima Internazionale (Imo); non sappiamo perché una decisione che configura il coinvolgimento della Difesa nazionale in un’esigenza privatistica sia stata assunta con un accordo privatistico (tra ministro della Difesa e Assoarmatori) trasformato in un decreto ministeriale che nel titolo parla di “guardie giurate” e non militari.
I marò poi non capiscono perché debbano essere trattati come paria per aver servito la patria, aver fatto ciò per cui erano stati addestrati e, se hanno sbagliato, per non aver ricevuto istruzioni preliminari su limiti e salvaguardie e quelle contingenti sul comportamento da tenere a cose fatte. Possono pensare di esser state cavie di un esperimento. Fallito.
In verità non si capisce nemmeno se i due marò siano i veri responsabili dell’omicidio. Gli indiani stessi dubitano che siano gli esecutori materiali della sparatoria. Da anni chiedono d’interrogare gli altri due membri del team, inutilmente, benché gliel’avessimo garantito. È stato evidente fin dal primo momento che l’assunzione di responsabilità di “comando” da parte del comandante e il vice-comandante del team (Latorre e Girone) risponde più all’etica militare che al codice penale. Ma i giudici vogliono gli autori veri e non i “volontari”. La responsabilità penale è personale e l’etica militare fa onore ma non la sostituisce.
Il dubbio è venuto anche all’ammiraglio Piroli che condusse l’inchiesta “sommaria” (una procedura immediata, a fatti freschi e testimoni validi, seria e rigorosa – a dispetto del nome – che costituisce la base per tutte le inchieste militari successive). Accertò subito che i proiettili trovati sui corpi delle vittime provenivano da armi assegnate agli altri due membri. Non si può escludere la sostituzione di armi, ma quella relazione è stata sul tavolo del ministro della Difesa nei 4 anni di calvario dei marò. Tutta la vicenda sembra esser stata affrontata “all’italiana” quasi si sperasse di convincere gli indiani della nostra vacuità.
La catena militare s’è schierata dietro gli interessi dell’armatore e la volontà di perseguire la via diplomatica. La diplomazia è intervenuta a gamba tesa con un’arroganza irrituale, trattando l’India come un paese di barbari. Le posizioni difensive hanno subito opposto cavilli legali. I tentativi di “pagare” i familiari delle vittime per farli tacere (così sentenzia la Corte suprema indiana). La procura militare italiana aprì un’indagine per “violata consegna aggravata” e “dispersione di armamento militare”, il che lascia intendere che delle armi siano sparite. Quali? E poi i pasticci del rientro in patria e del rifiuto di farli tornare in India. Sbraitiamo per lesa sovranità e allo contempo andiamo a piagnucolare con Onu, Usa, Gran Bretagna e Ue. Insomma un susseguirsi di eventi che rivelano non uno ma tre governi in preda a pasticci ondivaghi.
Se mai la Corte dell’Aja accorderà al nostro paese la giurisdizione sulla vicenda, dovremo fare un processo della cui serietà e rigore in tanti dubitano. Abbiamo perso credibilità e se qualcuno all’improvviso riesumasse la relazione Piroli e scagionasse i due accusati, o qualcun altro tirasse fuori dal cilindro il bianco coniglio che ne dimostri l’innocenza, magari per attenuare le ritorsioni industriali anticipate dall’India, si manifesterebbe il dubbio ancor più atroce che Latorre e Girone siano stati sacrificati sull’altare della convenienza e dei pasticci “all’italiana”. Dovremo iniziare un nuovo iter tormentoso alla ricerca della verità. Non proprio una specialità italiana. In questa situazione, Latorre e Girone che sfilano a passo di marcia davanti ai responsabili istituzionali della loro tragedia, con la mano destra alla fronte e la sinistra alla pistola avrebbe potuto (e dovuto) imbarazzarli. Tutti.