ItaliaOggi, 3 giugno 2016
Ci sono due cattive notizie dalla Svizzera
Mi sono arrivate qua a NY due cattive notizie dalla Svizzera. L’ennesimo suicidio di un Ceo la messa in mora della Bsi (Banca della Svizzera italiana) da parte della Vigilanza (Finma), che cesserà di operare con il suo nome dopo oltre 140 anni. Due morti che devono fare riflettere gli svizzeri, così un vecchio signore come me che da anni segue i «segnali deboli» che riesce a cogliere nel mondo occidentale e legge questi eventi come conseguenze di un modello politico economico che sta facendo acqua da tutte le parti. E che, lo dico sottovoce, bisognerebbe abbattere, mandando ai giardinetti tutti quelli che lo praticano. C’è una bella metafora di Mervyn King (per 10 anni banchiere centrale inglese) detta «teoria Maradona»: col suo «culo basso» (baricentro ottimale) per 50 metri corse in linea retta superando 5 giocatori inglesi con finte, sfruttò cioè le loro aspettative che si sarebbe spostato a destra o a sinistra». La massima credibilità la si ottiene fingendo di fare qualcosa, in realtà non facendo nulla. È il loro caso.
Come ovvio non c’è nulla di più personale di un suicidio, quindi è inopportuno trarre delle conclusioni per sostenere proprie tesi. A cavallo degli anni ’90 ero spesso a Tokio (ero Presidente di Fiat-Hitachi) quando scoppiò la prima grande bolla, il Giappone entrò in una “crisi” che durò fino allo scoppio di quella mondiale del 2008, il cui merito va ascritto ai banchieri di Wall Street. Da quasi 30 anni i giapponesi sono sotto schiaffo. C’è una documentazione infinita sull’impatto del suicidio in Giappone, il più drammatico è un dato recente: il suicidio è la prima causa di morte degli «under 24». Lo fanno in misura prevalente i maschi giovani della classe media che non vedono prospettive sul loro futuro, quelli che perdono il lavoro, i manager licenziati: il collegamento con la Grande Crisi e la mancanza di lavoro sono indubbie.
Bsi, Banca della Svizzera italiana (in classifica, quinta) è una gloriosa istituzione, dopo aver assorbito altre banche locali (BUC e Gottardo) aveva voluto seguire il grande ballo delle banche anglosassoni, cavalcare anche lei la mitica globalizzazione, buttarsi nel ricco private banking asiatico in quel di Singapore. Il piccolo nucleo di manager svizzeri della vecchia scuola finanziaria svizzera colà inviati, un giorno vennero espulsi dalla scuola newyorchese in salsa asiatica dei nuovi dirigenti. Non avevano capito cos’era Singapore: un «centro finanziario a valore aggiunto» come lo definisce il suo (imbarazzante) Governo. Locuzione inquietante da cui fuggire a gambe levate. Non lo fecero, fu la fine.
Mi chiedo fino a quando la Svizzera, che in campo bancario ha una tradizione storica non si deciderà a staccarsi dal modello di Wall Street, «l’albero della cuccagna, nel frattempo diventato una piantagione planetaria che all’apparenza produce succosi frutti, nella realtà velenosi e letali» (parola di Sergio Rossi, professore ordinario di macroeconomia a Friburgo). Le Banche tornino a investire nel territorio che le ospita e lo facciano con la cultura contadina che ha sempre connotato il sistema bancario svizzero (raccogliere denaro e imprestarlo) e lascino Wall Street a giocare a monopoli con i loro algoritmi, quelli che prima o dopo li porteranno al grande botto.
L’altro aspetto su cui riflettere è il ruolo dei Ceo. Questi hanno avuto un enorme successo in Occidente, oggi tutti i giovani universitari sognano di diventarlo, senza che nessuno spieghi loro di che cosa si tratta. Lo usano indifferentemente sia quando si tratti di un manager che di un deal maker, due professioni totalmente diverse, anche se tutti fingono che siano la stessa cosa. Oggi nel mondo bancario, assicurativo, industriale la maggior parte dei Ceo sono dei deal maker, così come la maggior parte dei politici con ruoli esecutivi sono dei politicanti, non certo statisti (vivono per lo spazio di una elezione). Questo chiede il «mercato»? E così sia. A proposito del suicidio di Martin Senn (Ceo Zurich, dimissionato 6 mesi fa per far posto a Mario Greco, già Ceo di Generali, proprietaria di Bsi fino al 2015) una psicologa del lavoro svizzera ha scritto «..l’isolamento a cui è costretto un Ceo e le responsabilità di cui l’hanno caricato gli azionisti non aiutano, e quando la sua visione globale viene meno, la morte sembra l’unica via d’uscita».
Come dice il mio amico Massimo Recalcati nel mondo animale «la cicatrice è memoria dell’offesa subita, ma anche il segno dell’avvenuta estinzione dell’offesa. Per alcuni uomini invece la ferita è sempre viva, mai cessa di spurgare, mai si compie il processo di cicatrizzazione, perché essa non è causata dagli artigli di un altro animale ma dai significanti di chi ha cresciuto la nostra vita». Perfetta analisi, lo dico con cognizione di causa, avendo vissuto un momento simile 20 anni fa. Il licenziamento al culmine del successo l’ho vissuto non come una ferita ma come un riconoscimento di diversità di cui andare fiero. In quel momento scoprii che ero un manager e non un deal maker. Me ne compiacqui. Da allora osservo questo mondo (decadente a sua insaputa) con lo stupore di un adolescente.