Corriere della Sera, 3 giugno 2016
Il dubbio di Draghi è: fino a quando continuare gli acquisti di titoli di Stato?
Il 19 giugno 2013 un compagno di studi di Mario Draghi ebbe parole simili a quelle che anche il presidente della Banca centrale europea sa di dover pronunciare, un giorno. Ben Bernanke, che con Draghi aveva condiviso gli anni del dottorato a Boston e ora era presidente della Federal Reserve, accennò a una frenata negli interventi della banca centrale americana. «Prevediamo che sarà appropriato moderare il ritmo mensile», disse. Dopo anni di quantitative easing – acquisti massicci di titoli di Stato e privati – con la ripresa americana arrivavano anche i segnali di un rallentamento del bazooka della Fed.
La reazione sul mercato fu immediata. In due giorni i rendimenti sui titoli decennali del Tesoro Usa schizzarono del 16%, abbastanza da trasformare l’intera struttura del finanziamento in uno Stato molto indebitato come l’Italia. Il dollaro si impennò del 3% in 48 ore, rendendo più costoso l’export statunitense. Fu una breve tempesta poi passata alla storia come tantrum, le bizze del mercato.
È un episodio che Mario Draghi senz’altro nei prossimi mesi riesaminerà, per una ragione specifica: il quantitative easing della Bce approda alla sua (attuale) data di scadenza nel marzo prossimo. Ieri lo stesso presidente della banca centrale ha deliberatamente ricordato che gli interventi potrebbero continuare anche oltre, «se necessario». Ma proprio definire esattamente cosa sia necessario si profila come il grande negoziato d’autunno nel consiglio direttivo della Bce. E il suo esito potrebbe essere più determinante per gli equilibri dell’Italia più di qualunque bonus da 80 euro o della spending review nella sua versione corrente.
Bernanke nelle sue memorie scrive che aveva pronunciato quella frase, innescando le bizze del mercato, per spirito di compromesso. Nella Fed i suoi colleghi più intransigenti reclamavano la fine degli interventi, lui invece voleva continuare: di qui l’idea di iniziare a ridurre gli acquisti solo gradualmente. È dunque plausibile che considerazioni del genere rimbalzino anche a Francoforte da adesso a dicembre. Draghi ieri ha sottolineato che restano ben vivi molti rischi per l’economia europea, benché di recente il quadro sia migliorato anche grazie alla Bce. La zona euro è nel dodicesimo trimestre consecutivo di espansione, all’inizio dell’anno la crescita dell’area è accelerata e la disoccupazione è in calo per il quarto anno di seguito. Il petrolio attorno a quota 50 dollari farà sì che in autunno l’inflazione annuale sembri più alta, perché si confronterà con un prezzo del barile precipitato a 30 dollari alla fine del 2015. Draghi ha lasciato capire che questi argomenti potrebbero non bastare perché la Bce alzi il piede dall’acceleratore dei suoi acquisti da 80 miliardi al mese. Puntigliosamente ha ricordato che l’inflazione di base – eliminate le oscillazioni del petrolio e degli alimentari – rimane sempre in catalessi.
Ma nel vertice della Bce si sentono già anche voci diverse. Fra i Paesi sotto «quantitative easing» solo Italia e Finlandia hanno ancora una ripresa minima, e del resto la politica monetaria non si può fare sempre solo sul passo dei più lenti. Né è escluso che, come alla Fed nel 2013, anche sul tavolo della Bce del 2016 atterri l’ipotesi di un compromesso: nuovi acquisti di titoli sempre per 80 miliardi al mese ma per un periodo più breve, oppure interventi un po’ più leggeri dopo il marzo 2017 ma per più tempo. In ogni caso l’Italia deve ancora dimostrare di saper resistere al ritiro di queste dosi massicce di antibiotico finanziario. L’attenuarsi di inizio anno nella spinta dei consumi rivela che la tattica dei bonus fiscali, di per sé, ha dei limiti. Sarebbe un paradosso se il governo di Matteo Renzi dovesse sperare in un flop della ripresa europea tale da prolungare l’aiuto della Bce, perché solo quello tiene insieme i conti dell’Italia.