la Repubblica, 3 giugno 2016
Chi è Mohammed bin Salman, l’uomo che vuole cambiare l’Arabia Saudita
L’estate saudita è già rovente, e come ogni anno tutta la corte reale si è spostata da Riad a Gedda, dal deserto al mare. Il re Salman, i principi, i ministri con tutti i funzionari. Quest’anno nella famiglia del regno più tradizionale del Medio Oriente soffia un vento di rinnovamento, quasi di rivoluzione. È una speranza per moltissimi; un timore per tanti. C’è un giovane principe, Mohammed bin Salman, il figlio del re, nipote del creatore del regno, che è stato messo dal padre alla guida di una missione quasi impossibile: rinnovare un paese che sta vedendo crollare progressivamente le certezze su cui si era stabilizzato, il petrolio innanzitutto.“MbS” – come lo chiamano sui giornali – 30 anni è vice-principe ereditario, ministro della Difesa, responsabile delle Politiche giovanili e del Consiglio economico strategico. Nel grande salone dell’aeroporto di Gedda in cui accoglie il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ci sono i televisori al plasma che rilanciano le immagini di un Medio Oriente in fiamme in cui anche l’Arabia Saudita rischia di ustionarsi. Anche per questo il principe ha visto con grande cordialità il ministro di un paese medio, l’Italia, che tutto sommato è ancora un porto sicuro in un Grande Mediterraneo che cambia.
Alla fine di aprile Mohammed ha presentato il suo progetto per riformare l’Arabia Saudita, “Vision 2030”: gli obiettivi sono abbastanza noti, portare innanzitutto il paese a ridurre il peso del petrolio nelle sue entrate (oggi il 40 per cento del Pil saudita è petrolio e addirittura il 90 per cento delle entrate del governo arriva dagli idrocarburi). Avviare una profonda privatizzazione dell’economia, nel senso di vendere sul mercato pezzi dello Stato, per esempio una quota della società petrolifera Aramco, il simbolo stesso del potere politico- petrolifero del paese.
Ma “privatizzazione” anche per chiedere ai sudditi di diventare poco alla volta cittadini, prepararsi a pagare le tasse, a rinunciare ai sussidi su benzina, acqua e tutto il resto. Trasformandosi da passivi e sovvenzionati dipendenti pubblici in lavoratori e imprenditori più legati al settore privato. Entro il 2030 ci saranno altri 6 milioni di 15enni, e si valuta che saranno 4 milioni in più a cercare lavoro.
In questo progetto di modernizzazione economica, per MbS sarà inevitabile non solo creare più lavoro per i giovani ma anche aprire alle donne, renderle un po’ meno diseguali in un regno in cui però la discriminazione è legge religiosa. Aprire ai giovani e alle donne significa automaticamente favorire una forma meno integralista di Islam. Resta da vedere quanto realmente aumenterà il rispetto dei diritti umani per le cui violazioni il regime saudita è sul banco degli imputati.
Sono 4 i pilastri del potere su cui si è basato il regno degli Al Saud. Il primo è appunto la stessa famiglia reale. Il secondo è stato per anni il petrolio (e i prezzi bassi fanno vacillare anche questo pilastro). Poi c’è il rapporto con l’America: petrolio garantito in cambio di sicurezza, uno scambio che è saltato, visto che gli Usa hanno meno bisogno di petrolio e con l’apertura all’Iran non solo non offrono sicurezza, ma la sottraggono ai Saud.
Infine c’è l’elemento forse più delicato e misterioso: il rapporto col potere religioso, lo scambio che la famiglia Saud decise col predicatore Mohammed Abdel Wahhab, il fondatore del “wahabismo”, la corrente islamica radicale che è diventata religione di Stato. Legittimità al potere politico del clan dei Saud in cambio dell’osservanza del dettato wahabita, con ruolo centrale per i religiosi che interpretano questa visione dell’Islam sunnita. Il potere religioso che incorona i reali, già visto più volte in giro per il mondo.
Ecco, per cambiare l’economia con il petrolio basso, con l’America lontana e con gli iraniani più vicini, il re e il giovane principe dovranno in qualche modo modificare la struttura economica del paese. Il che significa modificare il contratto sociale. Ed entrare in collisione innanzitutto con la casta dei religiosi wahabiti.
E questo mentre l’Iran è alle porte, pericolosamente. Da quando a gennaio è stato giustiziato il predicatore sciita saudita Nimr al Nimr, Iran e Arabia Saudita hanno rotto le relazioni diplomatiche e sono ritornati a vivere senza ipocrisie il ruolo assegnato loro dalla storia: quello di nemici.
I sauditi sono ossessionati dall’espansione sciita/iraniana: l’accordo sul nucleare benedetto dagli Usa ha scongelato una forza demografica prima che militare, una potenza che nel Golfo non ha pari. Gli iraniani stanno armando e sostenendo milizie e amici sciiti in Libano, Iraq, Siria, perfino nello Yemen, che era sempre stato il giardino di casa saudita e in cui il principe Mohammed ha deciso assieme al re di impegnarsi in una vera e propria guerra.